La casa vivente. Intervista all’antropologo Andrea Staid
Associazione Per i Diritti umani ha avuto il piacere di intervistare l’antropologo e docente Andrea Staid sul suo ultimo saggio dal titolo “La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire” (ADD Editore) e lo ringrazia per la sua disponibilità.
Abitare è una delle principali caratteristiche dell’essere umano e la casa è il luogo umano per eccellenza. Domandare a qualcuno «dove vivi?» vuol dire chiedere notizie sul posto in cui si svolge la sua attività quotidiana. Ma soprattutto su quello che dà senso alla sua vita. Servendosi anche di un suggestivo giro del mondo tra le architetture vernacolari, il libro va in cerca del senso profondo dell’abitare. Dalle Ande peruviane alle montagne indiane, passando per il Vietnam e la Mongolia, Andrea Staid ci racconta che una palafitta sul lago Inle in Myanmar si regge su pali di bambù che vanno controllati e spesso cambiati, oppure che le travi del pavimento di una casa nelle montagne del Laos invecchiano, respirano e vanno revisionate. Ci racconta quindi che le case sono vive. In questo libro non ci sono solo esperienze lontane, perché dai viaggi c’è sempre un ritorno e ovunque sta nascendo la consapevolezza di quanto sia importante vivere (dunque abitare) in un modo più sostenibile ed ecologico. Da questa necessità nascono le esperienze di autocostruzione che stanno crescendo in tutta Italia e la scelta dell’autore di abitare in un rapporto diretto con la natura, in una casa che di natura si nutre e che è stata costruita assecondandone i ritmi e gli spazi. “La casa vivente” unisce antropologia ed esperienza personale, viaggio ed etnografia e ci invita a ripensare il nostro modo di immaginarci nello spazio.
A cura di Alessandra Montesanto
Il tuo ultimo lavoro si intitola “La casa vivente”: qual è il legame tra la “casa” e l’identità?
Credo che sia un legame stretto e importante. Sono convinto che il modo e il luogo in cui abitiamo definisca un ambito nel quale si può costruire la propria identità e cultura. L’abitare rappresenta l’azione propria dell’uomo che riflette e non si assoggetta semplicemente alla vita; l’essere umano “abita” la casa quando non si limita a subire l’esistenza e le fatiche del vivere. In questo modo “abitare” assume il senso del prendersi cura, di sé e degli altri.
Il premio Oscar 2021 è andato al film Nomadland in cui la protagonista, Fern, vive in un vecchio furgone: la sua è stata una scelta consapevole, dettata dalla volontà di abbandonare le logiche capitalistiche e convenzionali dell’Occidente. In quali modi è possibile fare ritorno a stili di vita in sintonia con l’ambiente e con la stessa natura umana?
I modi sono tanti e non credo che ce ne sia solo uno giusto, credo che sia fondamentale però non separare questo tema ovvero, il modo in cui costruiremo e abiteremo il mondo nel prossimo futuro, dai principi dell’interculturalismo e del ripensamento postcoloniale, che promuovono indirettamente l’importanza della biodiversità e della valorizzazione delle forme di vita di un ecosistema. Un primo significato di comunità si trova proprio nel contesto dell’ecologia, e indica l’insieme di organismi che condividono uno stesso ecosistema e interagiscono alloro interno. Nel nostro ripensamento credo sia fondamentale prendere in considerazione riferimenti estranei al mondo industriale e occidentale, perché allargano il panorama verso modi “altri” di vivere e pensare lo spazio abitato. Questo significa avere un approccio ecologista decoloniale, come scrive Malcom Ferdinand, perché il degrado ambientale non può essere dissociato dai rapporti di dominio razziale che derivano dal nostro modo di abitare la Terra e da un sentimento di legittimità nell’appropriarsene. Esiste uno stretto legame tra diseguaglianze sociali e distruzione dell’ambiente e credo sia importante riuscire a connettere queste tematiche all’eredità razzista.
Distruzione della natura e oppressione sociale sono da sempre legate eppure, negli appelli ad affrontare l’urgenza climatica, si continuano a vedere slogan privi di un pensiero sociale. Risolvere la questione dell’inquinamento e della scarsità di risorse solo attraverso soluzioni tecnocratiche tipo la geoingegneria o i mercati di carbonio, come vorrebbe la green economy, non va alla radice del problema. Serve un ripensamento globale del sistema legandolo alla storia coloniale, come forma strutturata di distruzione degli ecosistemi e di “altericidio”. L’architettura indigena è invece stata, e in alcuni casi continua a essere, una risposta sostenibile alla necessità dell’essere umano di abitare il proprio spazio.
Il viaggio è un’opportunità per una tras-formazione personale e hai avuto modo di vistrare il Mynamar e con il meraviglioso (in senso letterale) Lago Inle: come ha suscitato le tue riflessioni su nuove forme dell’abitare?
Non solo il Myanmar in generale sono rimasto colpito dal modo di abitare indigeno sia nel sud est asiatico che in centro America, passando per la mongolia e il Marocco…
Se guardassimo a chi non si è tuffato nell’onda del progresso senza meta delle megalopoli, potremmo scoprire che è ancora possibile soddisfare le nostre necessità abitative sfruttando meno le limitate risorse disponibili, provocare un impatto minore sui nostri fragili ecosistemi, generare un legame profondo tra i costruttori, l’ambiente, i materiali impiegati e l’intera comunità. Tornare a essere homo faber è una necessità per il futuro che costruiremo, significa imparare di nuovo a essere donne e uomini artefici, in grado di trasformare la realtà grazie alle proprie capacità pratiche e intellettuali.
Nella società contemporanea viviamo una crisi del saper fare, soprattutto nell’ultimo periodo pandemico legato al covid-19, siamo stati costretti a casa e le nostre relazioni sono state sempre più con e attraverso macchine e oggetti industriali; di fatto, stiamo vivendo una limitazione drastica delle esperienze sensoriali. Una delle caratteristiche anatomiche principali di noi ominidi è il pollice opponibile che ci permette di manipolare gli oggetti con grande controllo e precisione; noi animali umani ci siamo plasmati culturalmente producendo e lavorando oggetti, e l’essere diventati sempre più homo comfort sta compromettendo passaggi cruciali della conoscenza manuale e culturale della nostra specie.
Gli edifici delle comunità indigene che ho incontrato in questi anni e che racconto nel mio libro “la casa vivente”, non sorgono nel vuoto, fanno parte della vita e della cultura dei popoli che rappresentano, non rimangono immutate nel tempo, ma si modificano e si arricchiscono con l’incontro di nuove tecnologie costruttive. Sono convinto che l’architettura spontanea ci insegna qualcosa sulla vita e sulle tradizioni dei popoli indigeni, riflettendo le nostre esperienze come in uno specchio.
La Giustizia è un concetto, è un valore sicuramente da perseguire che rimane, però, troppo spesso lontana dalla verità dei fatti. L’abitare condiviso, invece, la casa comune propongono una nuova idea di solidarietà concreta: qualis arebbero altri passaggi utili per affermare un’ Etica della cura che consideri anche l’Altro distante nello spazio e l’Altro distante nel tempo? (Per citare Elena Pulcini alla quale va il nostro più caro ricordo)
Credo che una concezione di abitare i luoghi che si ispiri ai principi dell’economia circolare, quale modello economico idoneo a rigenerarsi da solo, attraverso la valorizzazione degli scarti di consumo, l’estensione del ciclo di vita dei prodotti, la condivisione delle risorse, l’impiego di materie prime seconde e l’uso di energia da fonti rinnovabili oltre che ovviamente con una condivisione e visione allargata del concetto di “bene comune” possa essere un modo per affermare quella che hai chiamato un’etica della cura. L’obiettivo del mio libro non è quello di fomentare un dibattito “solo” su come costruiamo case, ma di costruire un mondo nuovo a partire da come concepiamo ciò che costruiamo.