I consumatori del nuovo millennio: l’inganno del greenwashing
di Maddalena Formica
Sostenibilità ambientale, prodotti ecofriendly, marchi ecologici…oggi il mondo dei consumatori, specchio della società civile, è sempre più attento all’impatto ambientale dei prodotti che vengono esposti sugli scaffali dei supermercati.
Questa nuova sensibilità, impensabile fino a pochi anni fa, ha spinto molte aziende a rivedere i propri procedimenti di produzione per renderli effettivamente più ecofriendly ma purtroppo, in alcuni casi, si tratta solo di una ben riuscita strategia di “greenwashing”.
Il greenwashing è infatti una strategia di marketing che si basa sull’ingannare il consumatore, nascondendogli dei dati o confondendolo con campagne pubblicitarie poco chiare dove il “green” impera tra i colori usati o come stile di vita rappresentato, per convincere chi le guarda che il prodotto che sta acquistando è a ridotto impatto ambientale. Pratica sempre più diffusa per strizzare l’occhio alle esigenze e sensibilità più recenti della società, generando così più profitti (si può pensare anche al pinkwashing e al genderwashing), oggi il greenwashing è una tendenza pericolosa; se da un lato, infatti, è più o meno sottilmente utilizzata dalle aziende per evitare gli effettivi costi di una produzione più sostenibile, dall’altro questa provoca confusione e, nel lungo periodo, scetticismo anche nel consumatore armato delle migliori intenzioni.
Il problema principale, quello che permette l’uso di espressioni e slogan poco trasparenti nelle descrizioni dei prodotti, è che non esiste, a livello internazionale e, nella maggior dei Paesi, nemmeno a livello nazionale, una legislazione ad hoc che fissi i criteri per poter qualificare un prodotto come sostenibile, da un punto di vista ecologico o etico.
Vi sono numerosi marchi di “eccellenza ambientale”, europei e non, ma ognuno con i propri criteri e le proprie regole e l’Autorità antitrust è dovuta intervenire più volte per condannare aziende che praticavano il greenwashing, facendo riferimento alla normativa vigente in materia di pubblicità ingannevole (ad esempio nel caso Ferrarelle e nel caso Volkswagen). In Italia, inoltre, dal 2014 il Codice dell’Autodisciplina pubblicitaria chiede “dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili” per le comunicazioni delle attività commerciali riferite ai benefici ambientali ed ecologici.
Nonostante questi passi avanti nella lotta al greenwashing, però, nella maggior parte dei casi rimane in capo al consumatore informarsi per capire davvero se, a prescindere dalle pubblicità e dalle vaghe dichiarazioni delle aziende, il prodotto è davvero il frutto di un ciclo di produzione sostenibile. Queste ricerche possano essere fatte sul sito dell’azienda, leggendo gli ingredienti e le modalità di produzione, che dovrebbero essere indicate con trasparenza se sono realmente sostenibili, verificando i certificati e i criteri necessari per ottenerli; accenni eccessivamente vaghi all’impatto ecologico del bene nelle pubblicità e nelle descrizioni possono essere inoltre un campanello d’allarme che forse non ci troviamo davanti ad un vero prodotto ecofriendly, ma davanti ad un ennesimo esempio di greenwashing.
Una risposta
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