Intervista a Eltjon Bida sul romanzo “Che fine ha fatto quel clandestino?”
Associazione per i Diritti umani ringrazia l’autore Eltjon Bida per aver concesso la seguente intervista a cura di Alessandra Montesanto
Dopo “C’era una volta un clandestino”, Eltjon Bida torna con il sequel. Chi l’ha detto che a vendere porta a porta, dormire in un vagone merci, mangiare nelle Caritas non si è felici? Siamo nel 1997, un periodo in cui si parla solo male degli albanesi, ed Elty si ritrova a dover ricominciare di nuovo da zero, ma non si perde d’animo. Ama il suo lavoro, i suoi amici, i suoi colleghi italiani e, anche se spesso i ragazzi vengono insultati, non mollano. Lui è felice anche perché frequenta due ragazze. Tuttavia, non sa scegliere. Ma sarà davvero sua la scelta? L’unica spina nel suo fianco sono i suoi connazionali e suo fratello, che dalla disperazione rubano, spacciano e vogliono lasciare l’Italia per provare la fortuna altrove. Ci riusciranno? E, soprattutto, quanto durerà la felicità di Elty?
Il romanzo è ambientato nel 1997. Gli anni ’90 sono quelli del primo flusso migratorio in Italia: ad oggi cosa è cambiato nella gestione dell’accoglienza a livello politico e sociale?
Secondo me, ora le varie associazioni sono più organizzate. Negli anni Novanta uno si doveva arrangiare da solo, adesso mi pare che ci sia più accoglienza.
Poi, sia in passato che oggi, ci sono persone che ne hanno sempre da dire contro gli stranieri.
Però, chi lasciava il proprio paese nel ’97, lo lasciava per gli stessi motivi che lo lascia un immigrato di oggi: per cercare un futuro migliore.
Il protagonista – ricordiamo che si tratta di un racconto autobiografico – frequenta due ragazze contemporaneamente: cosa rappresenta questa scelta a livello profondo?
Sai, a diciannove anni, tutti i sentimenti sono profondi, immediati, e io pensavo di amarle entrambe.
La disperazione (la speranza negata, persa) induce altri personaggi a compiere azioni illecite: a suo parere, tali azioni si possono giustificare oppure no?
Due amici spinti dalla disperazione erano diventati dei ladri di villette in quanto non riuscivano ad avere dei documenti e di conseguenza non potavano lavorare. I loro genitori si era indebitati fino al collo per mandarli in Italia. Senza un lavoro non avevano soldi, perciò erano senza speranze. Se avessero potuto guadagnare lavorando, lo avrebbero fatto, ma i miei amici vedevano solo nero. Non lo approvo, ma lo capisco. Erano gli unici due che avevano preso una brutta strada, altri albanesi o stranieri che ho avuto modo di conoscere, erano davvero persone per bene, persone che cercavano di lavorare e rispettare le regole. Quasi a tutti gli stranieri, se li si dà la possibilità di lavorare, lo farebbero senza infrangere le regole.
Elty è contento del suo lavoro: come si possono rovesciare i pregiudizi e gli stereotipi sugli immigrati che “non lavorano”, “rubano il posto agli italiani” etc.?
Gli immigranti che non lavorano, di solito è perché non hanno la possibilità, anche se in generale prima o poi un lavoro lo trovano comunque. E non rubano il posto agli italiani, anzi, di solito fanno i lavori che nessuno vuole fare.
Cosa c’è dall’altra parte della costa: quale Paese ha lasciato e quale Paese è, oggi, l’Albania?
Ho lasciato un’Albania povera, mezza distrutta, dove per la cultura non si faceva proprio niente, anzi, le scuole chiudevano una dietro l’altra, dove la gente faceva di tutto pur di scappare. Ora l’Albania è un bel Paese. Un Paese che tanti invidiano e vorrebbero viverci. Infatti alcuni dei nostri ora tornano per sempre e lavorano là, in Albania. Ha delle coste curate, da mozzafiato, così come anche le montagne. Ora c’è cultura, ci sono le scuole e quasi tutte le comodità. Ovviamente c’è ancora da migliorare, ma comunque siamo sulla giusta strada.