Il rapporto. Così il silenzio uccide in 169 guerre nel mondo
da avvenire.it
Lucia Capuzzi domenica 1 maggio 2022Nel disinteresse quasi totale del mondo, ogni anno si combattono conflitti nascosti o ben lontani dai riflettori dei media Africa e Asia restano i Continenti che sopravvivono nel buio informativo
Un ragazzino con il kalashnikov nel 1998 in Congo – Ansa
Lo dice la parola stessa. Guerra deriva dal termine germanico werra, cioè mischia furibonda, dove le parti si affrontano in un corpo a corpo rozzo, sconnesso, disorganico. «Werra» è, dunque, sinonimo di caos. Non sorprende che nelle epoche di elevata instabilità geopolitica, le guerre si moltiplichino.
Del resto, ricordava la filosofa Hannah Arendt, esse non servono a ristabilire i diritti, bensì a ridefinire i poteri. Più che la prosecuzione della politica con altri mezzi – come sosteneva Von Clausewitz –, sono la certificazione del suo fallimento. In questo tempo di crisi della politica e del suo principale riferimento – lo Stato nazione –, nuove fiammate belliche si sommano a vecchi scontri irrisolti.
Il risultato è un susseguirsi di crisi a intensità variabile che si consumano in gran parte nel Sud del mondo e, per questo a differenza per esempio dell’Ucraina, a distanza incommensurabile dalla ribalta mediatica. Il “Conflict data program” della prestigiosa Università svedese di Uppsala ne ha censito 169 nel 2020, l’ultimo anno per cui i dati sono disponibili, per un totale di oltre 81.447 vittime. Un nuovo record, dopo 5 anni di relativo calo.
E da allora lo scenario è ulteriormente peggiorato. «Terza guerra mondiale a pezzi», non si stanca di definirla, fin dal 2014, papa Francesco. Solo tre dei 169 conflitti registrati implicano un confronto militare “classico” fra Stati: India-Pakistan per il controllo del Kashimir, Cina-India per la questione dell’Aksai Chin o Arunchal Pradesh e Israele-Iran, oltre ora a Russia e Ucraina. Il fatto è che nel Novecento, lo scenario bellico ha subito una «mutazione genetica», accelerata nell’ultimo quarto del secolo scorso. Se la Guerra fredda aveva articolato la conflittualità intorno a un unico spartiacque ideologico, dalla sua fine questa ha assunto connotati sempre più cangianti
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il centro di Aleppo devastato nel 2015 – Ansa
A dominare il panorama sono, ora più che mai, i conflitti interni o “intra-statali”. «A volte, un gruppo ribelle impugna le armi contro il governo come al-Shabaab in Somalia o i taleban in Afghani- stan, prima che questi ultimi prendessero il potere lo scorso agosto – spiega Therese Pettersson, coordinatrice del Conflict data program –. Ne abbiamo individuati 53. Altre, l’attore Stato non è coinvolto. In 72 conflitti, le parti in lotta sono milizie di vario tipo che disputano il controllo di un territorio. Vi sono, infine, ventuno crisi create da organizzazioni – statali o non – che prendono di mira deliberatamente i civili». Un filo rosso unisce questo sfaccettato poliedro bellico: la tendenza crescente da parte di attori esterni di supportare militarmente uno dei contendenti. «Proxy war», «guerre per procura », le chiamano vari analisti. «Sono stati gli scontri interni a produrre le conseguenze umanitarie più gravi nei decenni post-Guerra fredda.
È sufficiente ricordare il dramma della Siria, dell’Afghanistan, dell’Iraq e dello Yemen. Le due eccezioni sono le guerre statuali tra Etiopia ed Eritrea (1999-2000) e quella in corso tra Mosca e Kiev», aggiunge Pettersson. Il numero dei caduti negli scontri, inoltre, è solo uno delle tragedie causate dai conflitti. «La durata è un elemento cruciale. Quanto più lo scontro si protrae nel tempo, tanto più le conseguenze umanitarie rischiano di essere catastrofiche, indipendentemente dalla sua intensità, come vediamo in Sud Sudan, Nigeria, Congo, Sudan, Somalia », calcola Robert Blecher, direttore del Future of conflict program dell’International crisis group. Una gravità, quella delle guerre prolungate, inversamente proporzionale all’attenzione internazionale, assuefatta di fronte alla cronicizzazione di crisi «lontane». I due fattori – morti e tempo – si sono intrecciati in modo perverso nella guerra afghana, conferendole il tremendo titolo più lunga e più letale: va avanti ininterrottamente, fra picchi di brutalità e timide frenate, dal 1978.
Le mille facce del dominio armato
5 mila i morti in più nel 2020 (sono stati in totale 81.447) rispetto all’anno precedente
72 le guerre fra milizie non statali e 21 quelle con governi o gruppi contro i civili
L’emergenza fame, seguita alla riconquista di Kabul da parte dei taleban, ne è solo un’altra sfaccettatura. Secondo Blecher, infine, va incluso a pieno titolo nella categoria dei conflitti, la violenza che dilania buona parte dell’America Latina, ufficialmente “al riparo” dalla bufera bellica dall’accordo di pace in Colombia nel 2016. La realtà, purtroppo, è di segno opposto. La narco-guerra messicana, la feroce anarchia haitiana o gli scontri delle gang in Centramerica hanno costi umanitari e dinamiche a tutti gli effetti bellici. È lo svelamento di quanto affermava Hannah Arendt: il cuore della guerra – di ogni guerra, comunque la si definisca – è la ridefinizione del potere.