La speranza non è reato
(Di Luigi Ciotti su Lavialibera)
Il conflitto in Ucraina ha dimostrato che accoglienza e solidarietà sono possibili. Ora servono politiche che mettano in cima alle priorità la vita delle persone, senza fare alcuna distinzione tra i popoli che necessitano di aiuto
La speranza non è reato. Non può essere reato sperare di migliorare le proprie condizioni di vita. Senza speranza non c’è vita ma soltanto sopravvivenza. E a volte neppure quella, quando la situazione intorno è fatta di guerra, carestia, persecuzioni e violenze. Eppure noi pretendiamo di decidere chi ha diritto di sperare, e chi no. Chi ha diritto di vivere, e chi no.
La guerra in Ucraina, una sciagurata aggressione militare che in poche settimane ha costretto milioni di persone a lasciare le proprie case per cercare salvezza oltre i confini del Paese, ha smascherato anni di propaganda sul tema dell’immigrazione. La risposta coesa dell’Europa nell’accogliere i profughi e la generosità delle popolazioni, a partire da quelle più prossime al conflitto, ha dimostrato ciò che alcuni sostenevano, inascoltati, da sempre: quando c’è la volontà politica di salvare vite, e mettere la vita umana al primo posto, tutto diventa possibile.
Aiuti e oblio
In un tempo veramente breve, la solidarietà nei confronti delle persone in fuga ha consentito di dare efficacia a norme rimaste a lungo sulla carta, di superare vincoli sanitari e burocratici che sembravano insormontabili, di trovare accordi economici e far dialogare pubblico e privati in vista di un migliore coordinamento. Soprattutto, ha messo a tacere chi era abituato a definire “emergenza” l’arrivo, ogni anno, di poche migliaia di disperati attraverso le rotte pericolose del Mediterraneo o dei Balcani. Poiché si è visto che, anche di fronte a numeri ben maggiori, è possibile trovare spazi e costruire condizioni di accoglienza dignitose.
È partita allora la gara dei distinguo, delle classifiche di cosa è più guerra, di chi è più profugo, di quali situazioni sono disperate davvero e meritano la nostra mobilitazione. E poi, magia, si è smesso semplicemente di parlarne, come del resto è molto calata l’attenzione sul conflitto ucraino, non diversamente da quanto accaduto a tutti gli altri conflitti che pure continuano a provocare morte e devastazione nel mondo.
Intanto, i disperati cui si nega il diritto di sperare non hanno smesso di affrontare le rotte di morte del mare e dei monti, trovando sempre le stesse porte chiuse, le stesse leggi selettive, la stessa disumanità. Di fronte a famiglie che con dedizione hanno accolto donne e bambini, investendo spazi privati, soldi e cuore. Di fronte ad associazioni che hanno messo in gioco le loro risorse sempre scarse, pur di rispondere al bisogno di protezione dei più fragili. Di fronte a un sistema scolastico che immediatamente si è attivato per far sentire a casa i piccoli arrivati col trauma della guerra, non è mancato chi ha speculato e ha visto nell’accoglienza un’occasione di tornaconto personale, a livello economico e di immagine. Così, se prima si monetizzava consenso sulla paura dei profughi, subito dopo lo stesso consenso si è monetizzato su una frettolosa pietà nei loro confronti. Quanta ipocrisia e quanto cinismo, mascherati da solidarietà.
L’esercito dei profittatori
Sperare non è reato, ma c’è chi auspica che lo diventi. Mentre scrivo questo articolo, tornano alla ribalta proposte già rivelatesi fallimentari in passato: blocchi navali, decreti sicurezza, respingimenti. E intanto governi illiberali – come Turchia, Egitto, Libia – riescono a condizionare gli equilibri internazionali, mercificando la speranza dei diseredati e la paura di chi vede a rischio i propri privilegi. Tengono in ostaggio migliaia di esseri umani che l’Europa non vuole e in cambio di questo “favore” pretendono soldi e la libertà di reprimere qualsiasi opposizione interna.
Sperare non è reato, ma su quella speranza quanti reati si compiono! Dai trafficanti di esseri umani ai caporali, dai gestori corrotti dei meccanismi di accoglienza ai politici che usano il tema come un’arma elettorale. Il tutto a scapito di chi si muove onestamente per salvare vite e costruire opportunità durevoli, rispettose dei bisogni, dei legami e delle aspirazioni della gente.
Sperare non è reato, e noi continuiamo a sperare che questo concetto sacrosanto venga tradotto in politiche lungimiranti e leggi che guardano altrettanto lontano. Non è solo un problema di immigrazione, del resto.
Un racconto distorto
Pensiamo alle norme sullo ius soli – delle quali lavialibera si è occupata qualche numero fa – che non riguardano persone migranti ma giovani nati qui, italiani di fatto. Pensiamo alle sacche di povertà e illegalità in cui vengono lasciate campare comunità di diversa origine: dagli insediamenti informali di famiglie rom alle baraccopoli dei lavoratori stagionali, come se fossero realtà extraterritoriali, fuori dalla nostra giurisdizione, e dove si interviene, se si interviene, perlopiù in maniera repressiva.
Pensiamo anche solo al diverso taglio che viene dato alle notizie, specie quelle tragiche: quando a morire in un incidente è un agiato turista straniero oppure uno straniero immigrato, quando a compiere un delitto è un italiano contro uno straniero o viceversa. Il razzismo strisciante che detta i titoli dei giornali in molti casi è lo stesso razzismo applicato ai flussi migratori o alle politiche di integrazione: tu sì e tu no, tu mi somigli mentre a te non voglio correre il rischio di somigliare mai.
La speranza non è reato, mentre sarebbe da introdurre il reato di “selezione delle speranze”. La presunzione che abbiamo di definire il grado di felicità e pienezza a cui può aspirare ciascuna vita, in base al luogo di nascita e alla cultura di appartenenza. Non lasciamo che su questo come su altri temi a fare la differenza sia l’indifferenza.