Gli orsi non esistono: Jafar Panahi e il suo Cinema di denuncia del regime in Iran
di Alessandra Montesanto
Il film uscirà nelle sale italiane il prossimo 6 ottobre.
Un regista è costretto a seguire a distanza, tramite un computer, le riprese clandestine del suo ultimo film che viene girato nella città di Teheran perchè si trova esiliato in un remoto paesino rurale, al confine tra Iran e Turchia: le autorità governative lo considerano un dissidente e gli vietano di lavorae. Nel piccolo villaggio, il cineasta all’inizio viene accolto con curiosità: qui, nonostante il veto, sta realizzando un’opera che riguarda due coppie di innamorati che tentano di fuggire dal Paese di origine dopo anni di ricerca dei documenti falsi per l’espatrio, ma si ritrova a fotografare un ragazzo e una ragazza che si baciano, denunciando un amore proibito; l’immagine diventa la prova all’interno di un processo pubblico, secondo le leggi e le tradizioni ataviche del luogo, che vedrà coinvolti il regista, i due giovani, la comunità, il Potere e… un bambino. E l’artista, prima apprezzato dopo aver superato una certa diffidenza verso chi è estraneo da parte degli abitanti del paesino, ora diventa il possibile testimone di una grave ingiustizia.
Il protagonista del film, suo malgardo, è lo stesso Jafar Panahi che, al termine della narrazione, tira il freno a mano della sua vettura, dopo aver assistito a una situazione drammatica e aver preso una decisione difficile, ma eticamente necessaria.
Il cineasta iraniamo fin dal 2010 è perseguitato dal regime per le sue posizioni politiche ed è quindi sottoposto ad una serie di misure che limitano la sua libertà personale, e i diritti fondamentali quali: svolgere la propria professione e esprimere le proprie opinioni. Lo scorso luglio è stato nuovamente arrestato per aver sostenuto il collega Mohammad Rasoulof, ma ha proposto alla 79ma Mostra del Cinema di Venezia il film intitolato Gli orsi non esistono (No bears), vincendo il Premio Speciale della Giuria.
Lo spettatore segue, nella prima sequenza, i movimenti di una coppia in procinto di scappare dal Paese grazie a passaporti contraffatti per poi spostare lo sguardo verso le immagini di un computer che riflettono quelle di un film che si sta svolgendo nella capitale. Questi primi minuti narrativi contengono una dichiarazione di intenti del nuovo lavoro di Panahi: una riflessione accurata, intellettualmente complessa, sulle possibilità della tecnologia nel mescolare finzione e realtà con l’intento di dimostrare che, spesso e soprattutto nei Pasi sotto dittatura, l’attualità violenta supera la fantasia. Non solo autore, ma anche sceneggiatore e attore, Panahi vuole svelare l’ignoranza, l’ipocrisia, la brutalità del Potere sia nelle grandi città sia nei villaggi interni del suo Paese in cui a farne le spese è la società civile e in particolare i giovani che avrebbero diritto ad una vita e ad un futuro sereni. Per continuare a denunciare, quindi – come con tutti gli ultimi suoi film – Panahi utilizza gli strumenti a disposizione: cinepresa a mano (che permetterà di utilizzare anche ad una persona inesperta purchè si documenti), zoom, rottura della quarta parete, il pedinamento degli attori (vedi la scena con i contrabbandieri); e poi schermo del computer e del telefono cellulare per moltiplicare le immagini e creare un’opera meta-cinematografica come nella lezione appresa dal Maestro Abbas Kiarostami di cui è stato aiuto regista.
Molto rimane fuori campo per sottolinerare da una parte l’importanza dell’immaginazione e del coinvolgimento di chi prende parte alla visione e, dall’altra, per fare un riferimento alla censura da parte del regime che opprime la libera creatività e condiziona le scelte di vita delle persone. E chi sono in fondo gli orsi del titolo? Sono proprio gli uomini al potere, gli esponenti delle istituzioni politiche e teocratiche che utilizzano tradizioni antiquate, la mentalità ottusa e patriarcale e abitudini reiterate per generare paure, per minacciare e per eliminare gli oppositori. Il Cinema è Cultura e la Cultura può essere un’arma pacifica per contrastare la repressione: ecco perchè i cineasti vengono imprigionati e i giovani vogliono trovare una via di fuga in Europa se soltanto una presunta fotografia scattata inavvertitamente può mettere in pericolo l’esistenza stessa di due innamorati, senza nemmeno lo scrupolo di coinvolgere un bambino in una vicenda paradossale e brutale allo stesso tempo.
In un’inquadratura, infine, si vedono una sedia vuota un posto lasciato libero: quel posto verrà riempito da chi deciderà di continuare a battersi per la Verità e, a tal proposito, noi ci sentiamo di dedicare questa recensione all’attivista Masha Amini e a tutte le donne iraniane (e non solo) che osano affermare i diritti universali anche al costo più alto.