“LibriLiberi”. La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati
di Alessandra Montesanto
Ilan Pappè: un nome a molti noto per i suoi studi e scritti sul conflitto israelo-palestinese. Professore di Storia presso l’Istituto di studi arabi e islamici del College of Social Sciences and International Studies e direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’università di Exeter, ha riscosso molto successo con il saggio intitolato “La pulizia etnica della Palestina” e ora torna in libreria, edito da Fazi, con “La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati”.
La scrittura è, come sempre, divulgativa, ma ricca di informazioni dettagliate e puntuali che permettono al lettore di discricarsi nello svolgimento della Storia passata, recente e attuale di un conflitto che non trova soluzione, soprattutto per gli interessi geopolitici e per l’inerzia della comunità internazionale.
L’autore non si nasconde dietro alle parole, ma espone i fatti e li commenta in prima persona, partendo da quell’anno cruciale, in particolare per i palestinesi: il 1948.
Snocciola le strategie dei politici israeliani per porre le basi all’occupazione, via via sempre più estesa, dei territori con l’arricchimento di interviste e testimonianze agli operatori di ONG che operano sul campo i quali denunciano l’abuso di potere, la violenza, gli ostacoli burocratici, i checkpoint e tutto ciò che impedisce ai civili palestinesi di lavorare, studiare e di permettersi una qualità di vita degna di qualsiasi persona.
Molti i nomi che, nel tempo, si sono susseguiti in politica e sugli organi di stampa (quando ancora il conflitto era tra le priorità del giornalismo mondiale), in particolare dei politici israeliani da sempre sostenuti dagli USA e dall’Occidente tutto: ad esempio Moshe Dayan che, nel ’69, in una dichiarazione pubblica afferma: “Adesso la generazione dei Sei giorni – del 1967 – è riuscita a raggiungere Suez, la Giordania e le alture del Golan. E non è finita qui”, ricordando che in 130 ore di guerra, Israele cambiò il volto del Medio Oriente e passò da 21000 a 102000 km² di occupazione: la Siria perse le alture del Golan, l’Egitto la striscia di Gaza che occupava dal 1948 e la penisola del Sinai fino al canale di Suez, mentre la Giordania dovette cedere l’insieme delle sue conquiste del territorio palestinese ottenute nel 1948. L’annessione di Gerusalemme venne ratificata all’indomani del conflitto, indicando la volontà d’Israele di conservare in tutto o in parte le sue conquiste.
Ma, come detto, si tratta di una situazione in stallo che giunge fino ai giorni nostri. Il piano regolatore municipale della città di Gerusalemme – il completamento era stato programmato per il 2020 – prevedeva l’acquisizione del villaggio di al-Wallaja, pari a 2000 dunam (come si legge nel testo) nonché la costruzione di una nuova, ennesima, colonia, denominata Gilo. E’ importante sottolineare che: “la costruzione di quartieri come Gilo è ritenuta un crimine di guerra dal Diritto internazionale. Lo statuto di Roma della Corte penale internazionale del 1998 definisce un crimine di guerra perseguibile ‘il trasferimento, diretto o indiretto, ad opera della potenza occupante, di parte della propria popolazione civile nei Territori Occupati’”.
E poi ancora Ariel Sharon (1977-1987), le rivolte, il dominio reiterato mutano lo stesso paesaggio fisico della Cisgiordania, della striscia di Gaza e dello spazio vitale dei loro abitanti: anche la demografia viene stata trasformata: le deportazioni per attività politica, nell’87, erano circa 1500 così come numerosissime erano – e sono – lo spostamento dei cittadini da un luogo a un altro, a seguito di uno sradicamento forzato dalle proprie abitazioni.
La prima intifada, 1987-1993 e la seconda iniziata nel 2000, gli accordi di Oslo e il loro fallimento, avvicinano le vicende ad un altro anno tragico: il 2006, anno in cui Israele fu sconfitto sul fronte del Libano del sud e, per reazione, intensifica la sua politica a danno di un milione e mezzo di persone “che vivono nei 40 chilometri quadrati più densamente popolati del pianeta”. L’articolo 2 delle Nazioni Unite parla espressamente di “genocidio” e ancora oggi l’ONU possiede un organismo chiamato Comitato per l’esercizio dei diritti inalienabili del popolo palestinese (CEIRPP) che però ha prodotto scarsi effetti sul processo di pace.
Cinquant’anni della prigione a cielo aperto di cui Pappè ha voluto tornare a parlarci per non relegare questo, come altri conflitti, a fondo pagina al posto di guerre “più vicine”, che colpiscono oligarchi e militari: ma è necessario, invece, pensare che prima di tutto a fare le spese di qualsiasi situazione di belligeranza sono le persone comuni, siamo noi: con corpi, cuore, anima e pensieri ancora assetati di speranza.