“Art(e)Attualità”. COLLAPSO. Lo spreco, il clima e l’Uomo
“Art(e)Attualità”. COLLAPSO. Lo spreco, il clima e l’Uomo
Un’esposizione da Tenerife tra Filosofia e opere contemporanee
di Alessandra Montesanto
COLLAPSO è una mostra di opere contemporanee proposta dal TEA (Tenerife Space for the Arts), nel capoluogo dell’isola, Santa Cruz. Durante la scorsa estate l’abbiamo visitata e ne riportiamo alcune considerazioni che riteniamo altamente interessanti per il dibattito sui cambiamenti climatici a livello globale, sulla responsabilità dei cittadini e sulla giustizia sociale.
La Filosofia occidentale è tradizionalmente partita dalla domanda che prevale su altre grandi questioni, che, sia a livello individuale che sociale, delineano il modo in cui ci relazioniamo con il mondo: perché c’è qualcosa invece del nulla? Se possiamo essere certi di qualcosa, la nostra esperienza qualitativa del mondo, anche se non possiamo sperimentarla nella sua totalità, dice che, in effetti, ci sono cose che ci circondano. La materia rimane ed è continua. È impossibile fermare il corso della materia. Sia dal nostro punto di vista – quei rifiuti che non riusciamo a smettere di produrre, quel sacco della spazzatura giallo da 30 kg che viene riempito ogni due giorni in una famiglia di due persone – sia da uno stanziamento industriale – i litri di emissioni scaricati in mare da emissari nascosti sulla costa – sia come anche l’astrofisica – l’espansione dell’universo, la persistenza della materia oscura.
Ma come affrontare il fatto che la materia oscura è in continua espansione e la nostra è limitata? Come organizzare la materia, ciò che ci è rimasto?
Un’assidua definizione di residuo, o rifiuto è quella di “materia fuori posto”; è importante capire come riorganizzare la materia perchè è una questione politica e sociale. Che sia a livello domestico o industriale o extraplanetario. Il principio della definizione, dell’antropologa Mary Douglas, si basa sul fatto che l’organizzazione della materia ha una componente politica che la ristruttura sulla base di un pensiero dicotomico, ovvero: utile/inutile; produttivo/improduttivo. Sporcizia e rifiuti sono legati a un sistema di strutturazione igienica che lo identifica innanzitutto con qualcosa che destabilizza un ordine di contenimento che permette una vita funzionale e la struttura organica della città moderna è quella che nasconde i propri rifiuti sotto il magazzino e il cui fetore è nascosto anche a diversi metri dai contenitori che nessuno vuole vedere.
Tuttavia, il sistema di organizzazione dei rifiuti urbani come lo conosciamo oggi è molto recente. Fu solo nel XIX secolo che a Londra fu sviluppato un sistema igienico-sanitario pubblico: gli individui erano i responsabili della raccolta dei propri rifiuti e le acque reflue non presero forma fino a questo secolo, nonostante le lamentele sull’insalubrità del Tamigi fossero state presenti in Parlamento dal XIII secolo. Il De latrines, basato sullo spreco di rifiuti comunitario, che era stato praticato durante gli anni medievali, è passato anche alla Modernità con la gestione privatizzata voluta dal re, allo stesso modo in cui Locke sviluppò un sistema di pensiero liberale dove, portatrice di quei diritti non negoziabili – concepiti in definitiva come esito di deliberazione sociale contrattuale, ma sotto la legge ineludibile di diritti come la vita, la libertà e, soprattutto la proprietà privata – la città si avviava verso la privatizzazione dell’igiene. Tuttavia, a questa privatizzazione, antecedente all’industrializzazione e incipiente delle grandi capitali europee nell’Ottocento, mancava un elemento chiave che potesse riorganizzare tutto ciò che “era rimasto”. Vale a dire, poter spostare e nascondere ciò che gli individui avevano precedentemente gettato in strada.
L’organizzazione e l’industrializzazione delle risorse necessarie alla gestione delle città post-industriali ha quindi due punti di partenza in termini di pensiero: il primo è che l’immondizia è qualcosa del passato e che può destabilizzare e far ammalare. Non solo in termini di un sistema igienico basato sulla cura e sull’istituzionalizzazione della medicina, ma anche in quanto destabilizza lo schema basato su un certo ordine simbolico. Il residuo in vista è pericoloso. E il secondo punto è che,se la spazzatura è una cosa del passato, è perché ci ricorda dove siamo stati, cosa abbiamo mangiato e chi siamo. Sebbene la nostra memoria ci deluda, la spazzatura mostra il peggio di noi stessi. Le nostre abitudini di consumo sono esposte. In questo senso, Rathje e Murphy in “Spazzatura!” mostrano l’archeologia della spazzatura e come normalmente le persone, alla domanda sulle loro abitudini di consumo, tendano a nascondere i cibi dannosi per la salute e a sopravvalutare quello che dovrebbe essere il cibo “sano”.
Nessuno, inoltre, vuole condividere la propria spazzatura in pubblico. Non solo a livello individuale ma collettivo, una città senza un sistema fognario, impianti di trattamento delle acque reflue, scarichi o cassonetti è una società del passato. La città moderna è fatta di vetro, trasparente, ordinato, pulito. Il colore può essere anche manifestazione estetica dell’ordine simbolico del residuo. Anche parlare dell’uso del bianco come imposizione estetica durante il Movimento Moderno in Architettura o stile internazionale (1926-1950) aiuta a capire questo orientamento: dove ciò che era rimasto degli edifici e delle facciate era la decorazione, questa viene sradicata trattandola come un male, come grottesco. Questo rifiuto del grottesco definirebbe un’architettura bianca senza aggiunte, che rappresenta il progresso e la propaganda dello stile internazionale occidentale. Anche dopo la prima guerra mondiale, il critico d’arte e storico Adolf Behne fece una distinzione tra architettura bianca e architettura colorata, associando la prima alla classe borghese e la seconda agli ideali delle utopie socialiste. È curioso che il bianco derivi anche da un’idea igienista della Società. Nel sud della Spagna, i contadini usavano la calce per pulire le stalle per le sue proprietà antisettiche. Quando iniziarono ad arrivare le successive epidemie di tifo o peste, la popolazione divenne ossessionata da questa sostanza chimica e l’architettura divenne bianca. Cominciarono persino ad apparire rituali per imbiancare le stanze dei defunti di recente. È qui che l’idea del bianco come pulizia inizia ad essere culturalmente associata e si sviluppa per tutto il XX secolo nell’architettura e nell’arte.
La zona di Manshinay Yasser al Cairo o le discariche di Balatas e Payatas nelle Filippine sono complessi esempi contemporanei della sfida urbana posta dai rifiuti e dalla loro gestione. La prima è conosciuta come “la città della plastica”; un quartiere sovraffollato fuori il Cairo che si caratterizza per la sua architettura informale e la mancanza di un sistema logistico per organizzare i suoi rifiuti. In questa città come in altre zone del Cairo, esistono i cosiddetti “zabbaleen” – una parola che letteralmente significa in egiziano “area destinata alla spazzatura” -, gestiti da una comunità copta che si è tradizionalmente dedicata alla raccolta dei rifiuti. Rispetto ad alcuni sistemi di riciclaggio occidentali, riescono a riciclare l’80% dei rifiuti prodotti dalla città. Il delicato sistema comunitario degli zabbaleen è un processo di riciclo lontano dalla tecnologia contemporanea e basato su un equilibrio etnico o manuale, come sarà poi il cassonneto di cui parlava Walter Benjamin e che si trovava per le strade di Parigi e che ora è installato in molte altre città.
Ci sono persone che raccolgono i rifiuti, che guardano e prendono ciò che è stato gettato.Tutto ciò che la grande città ha buttato via, tutto ciò che ha perso, tutto ciò che ha disprezzato, tutto ciò che ha schiacciato sotto i piedi, lo catalogano e lo raccolgono. Raccolgono gli annali dell’intemperanza e dello dello spreco. Sistemano le cose e selezionano con giudizio: raccolgono come un avaro che custodisce un tesoro, rifiuti che assumeranno la forma di oggetti utili o gratificanti tra le fauci della dea dell’industria. Questa descrizione è una metafora estesa del metodo poetico, come lo praticava Baudelaire. Gli uomini della spazzatura e il poeta: entrambi si occupano di rifiuti.
L’idea del riciclo, del riutilizzo dei rifiuti come qualcosa di innovativo e che la città postmoderna si comporti meglio di qualsiasi altro sistema di riorganizzazione della materia, è, ovviamente, qualcosa di falso. Così è l’idea che ci sia una contemporaneità simultanea in cui regnano i progressi del “progresso”. L’esperienza del presente non è universalizzabile. Le idee che segnano un’epoca sono anche spaziali, geolocalizzabili. È curioso, in questo senso, come il concetto di “impronta di carbonio” sia stato ideato proprio dalla British Petroleum (BP) nei primi anni 2000, che ha incaricato la società di pubbliche relazioni Ogilvy & Mather di ideare questo concetto, sviluppando un motore di ricerca in cui calcolare l’impronta di carbonio di ogni individuo. Con un movimento come questo, BP esternalizza la propria responsabilità riguardo all’inquinamento del pianeta e riesce a incolpare i singoli attori, preoccupati per la loro rispettiva “impronta ecologica”.
Il sistema igienico-sanitario ideato dalla città tipicamente postmoderna, con una gestione privatizzata dell’organizzazione dei rifiuti guidata da multinazionali, non è l’unico modello contemporaneo di distribuzione del materiale in eccedenza, tutt’altro. È, tuttavia, il modello pertinente all’interno dell’immaginario simbolico sviluppato dopo la sanificazione dello spazio pubblico, che lega l’igiene all’individuo-proprietario e all’esigenza collettiva di avere uno spazio operativo. La spazzatura non viene distrutta, viene spostata. All’interno della società consumistica tardo-capitalista, l’utopia del riciclo si basa sull’esternalizzazione dei propri rifiuti: ciò che non si vede va taciuto.
Qual è la soluzione per riordinare la creazione incessante della materia e non affogare in essa?
Walter Benjamin usa la figura della cassonetto per illustrare la sua concezione dell’immagine dialettica: un momento presente illuminato dal passato, dove la verità viene svelata dalla nostra esperienza personale e sensoriale. Sia il poeta che il cerca-spazzatura (riciclatore) sono interessati allo scarto.Ci proponiamo qui di costruire un’immagine dialettica del residuo in modo tale che esso sopravviva non come elemento negativo o eccedenza di quello positivo; il riciclatore lo pulisce, ma come una rovina, come una costruzione affermativa nel suo decadimento. Nelle parole di Slavoj Žižek: l’idea di ‘riciclaggio’ comporta l’utopia di un circolo chiuso di tutti i rifiuti.
Cosa possono fare i singoli cittadini riguardo al clima globale ? Per esempio, l’organzzazione denominata Safety Orange funziona come tecnologia di controllo e autorizza i singoli cittadini ad essere perennemente vigili e responsabili della propria sicurezza e benessere. Possiamo intravedere questa logica spostando sottilmente il peso della conformità dalle istituzioni agli individui: la discarica di Payatas nella città di Manila, chiusa a causa di una frana che ha provocato la morte di circa 1.000 persone che vi abitavano, è un altro grande esempio di come, all’interno del sistema sanitario prevalente, la materia si muova, ma non venga mai distrutta completamente, venga rimossa dalla visione di quei centri che contano di essere spinti alle periferie, appunto, di essere spinti ai margini dell’ordine sociale e rimanere entro i confini dell’inaccettabile, sebbene il sistema stabilito nella società postmoderna non garantisca l’efficienza ecologica, come si vede con l’esempio di Zabbaleen che, invece, garantisce un sistema sanitario basato sulla performance economica dei suoi abitanti e un sistema di valori e credenze basato sulla dicotomia utile/residuo. Gli abitanti di Payatas o di tante altre discariche di fronte alle pressioni socioeconomiche e alla mancanza di alloggi nei centri urbani, si trasferiscono nelle discariche per vivere come spazzini, cioè raggruppano i rifiuti e vendono ciò che trovano … Pertanto, sebbene il sistema igienico-sanitario della città postmoderna non garantisca l’efficienza nella raccolta differenziata dei rifiuti o l’utopia del riciclaggio, garantisce l’ordine socioeconomico e simbolico in cui si trovano i rifiuti destinati ad essere il sostentamento economico di classi esterne a questo ordine sociale, relegate al di fuori di questo centro.
I rifiuti sono una questione politica la cui forma è modellata in molti modi, non si tratta solo della spazzatura stessa o della materia in una definizione classica di essa. Anche i corpi possono essere rifiuti: corpi che non sono produttivi. L’associazione tra residuo e improduttivo è evidente in questi corpi isolati ed emarginati all’interno della società: Robert MaCruer ha cercato di plasmare un tipo di corpo reso invisibile dalla società con la sua Teoria del Crip: “Corpi con diversità funzionale che non aderiscono alla norma, in questo caso, tendono ad essere isolati o emarginati. La logica del residuo sopravvive all’interno del nostro sistema di organizzazione delle idee e del ragionamento in molte aree della nostra vita”.
La spazzatura è l’oppresso, l’abietto. Storicamente, la nozione di rifiuto nasce legata ad una questione economica fondamentale: la produttività della terra. Così, nel Secondo Trattato di Locke, troviamo una definizione di residuo (rifiuto) che corrisponde a quella terra che non riporta un beneficio economico. Il residuo, storicamente, è simbolicamente equiparato a un sistema impuro, da cui deriva un pericolo. In questo senso, il sistema sapere/potere occidentale, fin dall’età moderna, rafforza una serie di valori in cui le stesse convinzioni prevalenti crollano prima della comparsa di altri nuovi valori. Soprattutto dopo l’Illuminismo, la conoscenza stessa viene riordinata e purificata sulla base dell’idea latente del residuo. La lotta dialettica tra tesi e antitesi può essere interpretata come il rafforzamento di un sistema di pensiero (filosofia?) che lotta per l’adattamento delle sue idee a un ordine che combatte il residuo: ogni conoscenza inutile deve essere ritirata, tutta la filosofia attuale deve ” pulire” il precedente sistema su cui è stato costruito o spodestare quelle convinzioni e valori che non si adattano al tuo spirito. La conoscenza può anche essere residuale; lasciato ai margini, dimenticato. Il compito della cassettiera è salvarli; frugare tra i rifiuti della Filosofia e della Storia.
In COLAPSO osserviamo diverse interpretazioni estetiche di queste sfide, analisi più o meno esplicite del sistema di categorizzazione dicotomica utile/inutile. Partiamo dalla critica ai rifiuti agricoli e industriali, presenti nell’opera di Amy Balkin, Rafael Pérez Evans o nel gruppo formato da Inés Miño, Iñigo Barrón e Mon Cano. In questi pezzi osserviamo come i rifiuti agricoli o ambientali modellano il nostro rapporto con lo spazio che abitiamo. Ad esempio, con il mare, come ci mostrano Inés, Iñigo e Mon, o con la terra stessa e la sovrapproduzione di banane, nel caso di Rafael. Da questa critica allo spreco ambientale e all’inquinamento atmosferico – quello smog di cui parla Amy – si passa a uno sguardo che poggia sulle tecniche di consumo capitaliste. Nell’opera di Shanie Tommassini, l’iPhone diventa un oggetto rituale, il cui incendio rimanda non solo all’obsolescenza programmata degli oggetti tecnologici ma anche al valore feticcio della merce, trasformata in un rituale quasi religioso. Cajsa Von Zeipel, Jack Almgren e Lucia Bayón ci mostrano anche modi di relazionarsi con la società consumistica, collegando elementi tessili nel caso di Lucia o il mondo del fast fashion con altri oggetti trovati, nel caso di Jack, parodiandoli in extremis come vediamo nelle sculture esorbitanti di Cajsa. Nel percorso espositivo si arriva alla rovina in sé, alla spazzatura destrutturata dotata di una forma architettonica, come artisti come Céline Struger, Marina González Guerreiro, Bat-Ami Rivlin o il duo formato da Ma Dallo e Lucía Dorta lavorano da prospettive diverse. Nel caso di Bat-Ami, siamo di fronte ai rifiuti domestici e ai resti della nostra stessa casa, che costituiscono una nuova realtà totalmente separata dal nostro spazio visibile. Nel caso di Maï e Lucia, il loro pezzo cerca di salvare le rovine di un’etica premoderna della cura, un sapere dimenticato i cui portatori sono state tradizionalmente le donne, bollate come “streghe”. D’altra parte, le rovine di Céline combinano figure mitologiche, come la Gorgone, con resti archetipici della nostra società industriale. Per Marina gli elementi più spendibili diventano motivi costruttivi, pezzi delicati fatti di un aspetto apparentemente superfluo. Da questa rovina si passa ai rifiuti umani: Berenice Olmedo, Luis Lece Marcin Dudek, ci mostrano modi di intendere, in definitiva, l’essere umano come parte dello stesso sistema di organizzazione dei rifiuti.
Ricordiamo che l’etimologia della parola ‘collasso’ deriva dal latino ‘collapsus’ e significa caduta totale. Lapse significa “scivolare”.
Una esposizione, quindi, che ci ammonisce: non scivoliamo, di nuovo, nello spreco della materia anche perché noi stessi di materia siamo fatti, ma anche di spirito e di conoscenza.