“Art(e)Attualità”. Per non dimenticare e non ripetere
di Alessandra Montesanto
Contro ogni sterile negazionismo e per comprendere fino in fondo l’importanza della Memoria, oggi vogliamo parlarvi di una sezione del museo Polin di Varsavia – premiato come Miglior Museo d’Europa nel 2016 – nato nell’area dove sorgeva il ghetto durante l’occupazione tedesca e che raccoglie, in maniera originale e interattiva, la storia degli ebrei polacchi dal 500 d.C. ai nostri giorni. ma la sezione che ci riguarda è quella riservata alla Shoà o all’Olocausto. Non sono sinonimi, però, questi due lemmi: il primo, infatti, si riferisce al genocidio degli ebrei: etimologicamente significa “distruzione, catastrofe” senza considerare, quindi, il concetto di “sacrificio”. Il termine “olocausto”, invece, si riferisce allo sterminio di tutte le etnie e indica un’offerta, più o meno gradita, ad una qualche divinità, offerta basata sull’atto di bruciare totalmente la vittima sacrificale. Non vogliamo dimenticare un’altra parola: “porrajmos” che si riferisce, in particolare, allo sterminio delle comunità rom e dei sinti durante il nazifascismo che, letteralmente, significa “grande divoramento”.
Nelle sale progettate da due architetti finlandesi, il percorso inizia in penombra e si snoda tra fotografie di vari formati, scritte, elenchi di nomi, cartine geografiche, ma anche voci riprodotte, filmati, installazioni. La luce, mano a mano che la seconda Guerra mondiale volge al termine e con essa la tragedia per le minoranze, si schiarisce per andare incontro alla speranza, ma la speranza è flebile ed è per questo che consideriamo un bene ogni momento e ogni azione per riportare alla memoria il passato, per tramandarlo alle nuove generazioni, per non porre di nuovo le basi che hanno fatto sì che alcuni popoli o individui perdessero la propria umanità.
Leggiamo, ascoltiamo le testimonianza e facciamole nostre. Per non dimenticare e non ripetere.
Separazione e isolamento, repressione, vivere all’ombra della morte, deportazioni.
Subito dopo la Liberazione gli ebrei si registrano per ricevere aiuto e lasciare una traccia. “Sono vivo, esisto”. all’inizio si identificano su normali pezzi di carta, ma presto il Comitato centrale degli ebrei in Polonia (CKZP) introduce moduli di registrazione per standardizzare il processo. Sono circa 200.000 gli ebrei registrati.
Il 90% della comunità ebraica in Polonia morì nell’Olocausto. I tedeschi e i loro alleati uccisero 6.000.000 di ebrei in tutta Europa. il museo POLIN è stato eretto nel cuore dell’ex quartiere ebraico, trasformato in ghetto durante la Seconda Guerra Mondiale.
Almeno il 10% degli ebrei sopravvissuti non si è registrato presso i comitati ebraici per varie ragioni, inclusi i traumi della guerra e l’antisemitismo del dopoguerra. Alcuni credevano che la nazionalità non avrebbe avuto importanza nel nuovo sistema, altri non si sentivano ebrei.
Nel ghetto sovraffollato ogni appartamento era pieno zeppo di occupanti. dopo le deportazioni rimasero solo 60.000 ebrei. Wladyslaw Szlengel ha scritto una poesia sul vuoto che lo circondava. e’ stato ispirato da una nota – un elenco dei tanti inquilini che un tempo avevano vissuto insieme in un appartamento ora vuoto – nascosta dietro al suo campanello.
L’Azione continua…Due o tre uomini delle SS si presentano dove la polizia sta conducendo il rastrellamento, terrorizzando la popolazione con le loro urla, le fruste e le sparatorie. Le persone vengono uccise.
“Tutto si svolge ad un ritmo vertiginoso, sempre più veloce. Presto tutti i residenti saranno in piedi nel cortile, la selezione è finita. Non c’è tempo per tornare indietro, non c’è tempo per un’ultima occhiata in giro, non c’è tempo per eventuali ultime parole. anche se il tempo giusto per i funerali è lento e dignitoso, non ti è permesso camminare lentamente. Qui devi correre”.
Aleksandra Sotowiejczyk-Guter (nata nel 1917), ghetto di Varsavia. “Da quando ho iniziato a portare con me il veleno, non sento più il mio cuore battere forte al suono degli stivali chiodati. Sento questo ansioso desiderio di vita, di libertà, di sole. un desiderio di poter attraversare la strada senza una toppa sulla schiena o sul petto, un desiderio per il tempo in cui ero pulita, quando avevo il mio letto. Un desiderio in cui ero un essere umano”.
Durante la Pasqua ebraica, gli ebrei religiosi erano alle prese con un dilemma morale: mangiare il pane o morire di fame. Chaim A. Kaplan, scrittore, insegnante e autore di libri di testo, ha scritto dettagli sulla vita religiosa nel ghetto. Dal 1933 al 1942 tenne un diario in ebraico e riuscì a trasferire le sue annotazioni fino all’agosto ’42: “Gli operai muoiono di fame; mi rivolgo alle autorità per il diritto di acquistare cibo…”. Anche Emanuel Ringelblum teneva un diario in yddish e il 22 novembre 1940 fondò un archivio clandestino “Oyneg Shabes (Joy of Shabbath), così chiamato perchè la squadra si riuniva segretamente il sabato. Rischiando la vita, il team ha raccolto ogni brandello di prova: dagli avvisi ufficiali tedeschi e gli annunci dello Judenrat ai giornali clandestini, dalle tessere annonarie, involucri di caramelle, biglietti del tram agli inviti ad eventi, rapporti e studi su questioni sociali e mediche. hanno accumulato diari, lettere, saggi di bambini, resoconti di rifugiati e opere letterarie. Si trattava di espressioni fedeli di ciò che gli ebrei polacchi hanno vissuto, pensato e sofferto.
“Siamo chiusi dietro a un doppio muro: dietro un muro di mattoni i nostri corpi, dietro un muro di silenzio fa’ tacere le nostre anime”.
“Quello che non si può gridare al mondo, seppelliremo nel terreno. Vorrei vivere per vedere il momento in cui questo grande tesoro potrà essere scavato, Una delle strade vicine è già bloccata. Gli stati d’animo sono terribili. Ci aspettiamo il peggio…”
I tedeschi sfruttavano gli ebrei come forza lavoro a buon mercato o gratuita. All’inizio ricevevano un salario molto basso e un piatto di zuppa. Spesso un lavoratore tornava a a casa contuso e sanguinante. Alcuni furono mandati nei campi di lavoro dove vissero in condizioni spaventose.
“Le porte sono davvero chiuse ora? Sì, lo sono. Chiuse sull’orda, sulla massa densa di persone all’interno. Attraverso piccole aperture in alto possiamo vedere teste e mani che iniziano ad agitarsi….quando il treno parte…”
Sebbene inizialmente la maggior parte degli ebrei preferisse l’occupazione sovietica a quella tedesca, non passò molto tempo che la mano pesante dei sovietici li schiacciasse. Dal febbraio 1940 al giugno 1941, i sovietici effettuarono quattro azioni di deportazione e reinsediarono circa 320.000 polacchi, inclusi 80.000 ebrei, a est, principalmente in Kazakistan e in Siberia. La maggior parte di loro morì di fame e per le dure condizioni di lavoro forzato.
Dicevamo…la speranza: a volte può essere controproducente, soprattutto se guardiamo all’attualità. Ma noi vogliamo continuare a credere e a lottare per un mondo giusto e libero.