The years we have been nowhere: la sofferenza delle migrazioni e delle deportazioni
Piccoli film, ma importanti.
Sono le storie di Sulemain, Fatima Kamakuye e Patrick che hanno lasciato la Sierra Leone in cerca di un futuro migliore, riuscendo a costruirsi delle nuove vite e delle famiglie in Europa e negli Stati Uniti ma, a causa di problematiche dal carattere burocratico ed alcune infrazioni amministrative, vengono condannati e strappati alle loro famiglie per essere rispediti nel paese d’origine, dove ormai hanno perso i contatti con amici e familiari di una volta…Le storie di alcune persone che hanno lasciato, per motivi diversi, la loro patria in Africa per cercare un futuro in Europa vengono descritte e lette sotto una luce diversa. Il termine che viene utilizzato sin dall’inizio è forte quanto, purtroppo, esplicito ed appropriato: deportazione. Le loro vicende personali ne rafforzano il significato gettando un’ulteriore e pesante ombra sulla cosiddetta questione dei migranti.
Cascavilla e Piacentini ci invitano a riflettere su vite a proposito delle quali la propaganda avversa diviene priva di strumenti.
Il problema dei flussi migratori sta al centro del dibattito quotidiano fra le forze politiche in Italia, in particolare per la sua collocazione geografica, ma anche nel resto d’Europa e non solo. L’argomento prevalente che viene portato da chi vorrebbe risolvere la situazione con proposte a volte solo propagandistiche (vedi alla voce blocco navale) è quello della mancata integrazione di chi arriva in cerca di una vita migliore portando però con sé retaggi culturali che non sono disponibili all’apertura rispetto ad usi e costumi delle società dei Paesi considerati come meta ideale.
Questo importante documentario ci ricorda che esistono anche (e non sono pochi) migranti che si inseriscono nella società verrebbe da dire ‘a pieno titolo’. Perché hanno imparato la lingua, trovato un lavoro, si sono sposati/e, hanno messo al mondo dei figli. Ma manca loro, secondo le leggi degli Stati, per dimostrare quella ‘pienezza’, un documento, oppure incappano in intralci burocratici e, da un giorno all’altro magari anche dopo molti anni, vengono rispediti nel Paese d’origine.
Vengono presi, ammanettati, portati a forza in un aereo (anche morendoci come è accaduto in un caso che viene riportato alla memoria) e fatti rientrare in una società che, a sua volta, li respinge perché non hanno fatto fortuna o comunque non sentono più come luogo in cui poter vivere e prosperare. Proprio chi si dichiara difensore del concetto di unità familiare dovrebbe ascoltare queste storie perché qui di famiglie si parla e del loro smembramento senza che nessuno abbia commesso un reato.
Opporsi alle deportazioni è impossibile; opporsi alla brutalità, permettendo agli uomini e alle donne deportati di mantenere la propria dignità, è civiltà.
L’OBIETTIVO DELLA RACCOLTA FONDI.
Raggiungere l’obiettivo permetterà agli autori di volare in Africa a incontrare i deportati, rispediti indietro, perché non li vogliamo e dobbiamo aiutarli a casa loro, e le loro famiglie, che hanno investito tutto per farli partire e che non hanno più nulla.
L’intento è capire cosa è successo quando Sulemain, Madame Manseray e Patrick sono rientrati, quali strascichi fisici e psichici ha portato l’allontanamento dai propri affetti; scoprire come mai gli unici che si decidono ad aiutarli sono solo coloro che hanno ricevuto sulla propria pelle lo stesso marchio infamante.
Per le famiglie rimaste in Sierra Leone essere riportati indietro non è un dramma, ma una condanna; essere separati dalle proprie famiglie è una colpa.
Successivamente gli autori voleranno a Berlino e a Londra per andare a scoprire quali macerie relazionali e affettive i deportati hanno lasciato alle proprie spalle, intervistando chi è rimasto indietro e non ha abbandonato la propria stabilità per andare a riprendere il proprio partner, e i figli cresciuti senza padre o madre, perché la burocrazia si è messa di mezzo.
“Conosceremo gli addetti all’immigrazione, coloro che li riaccompagnano a casa e gli avvocati che cercano di assistere e hanno cercato di impedire la loro deportazione“.
TRAILER del DOC:
L’obiettivo finale spiegano è sensibilizzare gli spettatori: “Noi vogliamo differenziare l’essere umano dal pacco postale, nel quale, a causa di leggi e di frontiere, decise a tavolino, lo si vuole trasformare, quando un confine non cambia la conformazione del territorio, ma solo il suo nome; in questo caso il deportato è utilizzato per meri interessi elettorali e da persona, magicamente, si trasforma in percentuale.
Il dramma del padre o della madre che non può vedere crescere i propri figli e che avrà effetti sulla psicosocialità degli adulti e dei bambini sarà il cuore della nostra campagna.
Chi beneficerà di questi fondi saranno i futuri spettatori che si avvicineranno a quest’esperienza scoprendo che, la propaganda televisiva, ululata ai quattro venti non è una scelta priva di conseguenze, ma una decisione che influenza decine di migliaia di vite ogni anno che sono spostate arbitrariamente da un continente all’altro“.
A COSA SERVONO I SOLDI?
Viaggiare per poter effettuare le riprese, utilizzare telecamere all’avanguardia per poter realizzare il documentario e renderlo disponibile sulle piattaforme che si utilizzano tutti i giorni (Tv, via cavo, on demand e streaming) montarlo e sottotitolarlo in tutte le lingue (italiano, inglese, tedesco, francese, spagnolo, cinese, arabo, olandese, portoghese, giapponese, malawi e hindi) per poterlo diffondere nel mondo.
CHI E’ INVISCHIATO NEL PROGETTO?
Mauro Piacentini regista e produttore, dopo i successi di “Posto Unico” e “Profondo Bianco” volerà in Africa in pieno Covid, incurante di malattie ben più gravi (quali il tifo, la malaria e il colera) per portare a termine le riprese africane.
Olivia Godding ha cominciato l’attività di modella e attrice quando aveva 12 anni e ha posato per Elle, Fille e Cover ed è apparsa in Confessioni di una mente pericolosa, di George Clooney. Adesso è un imprenditrice di successo a Freetown e comparirà nelle vesti di testimone nel documentario, in quanto migrante.
Roberto Sommella è un esperto di post-produzione che vanta una conoscenza approfondita degli strumenti di editing e molte esperienze come video maker. Dopo la laurea in Lingua e Letteratura giapponese a Napoli, ha vissuto in giro per l’Europa e ha maturato più di 15 anni di esperienza nella produzione video. Ha avuto la possibilità di lavorare con diverse piattaforme, software e telecamere su un ampio spettro di produzioni, dalla moda allo sport, dal branded content al corporate, dal marketing alla fiction o a cortometraggi come “Deep white”, presentato nel 2006 al Festival del Cinema di Venezia, nel settore Industry.
Markadams Kamara ha lasciato la Sierra Leone subito prima della guerra alla fine degli anni 90. Dopo aver vissuto e lavorato in Costa d’Avorio, si è trasferito nel centro Europa (Francia e Germania) dove si è sposato e ha avuto una figlia, prima di essere deportato. Rientrato in Sierra Leone, si è dedicato all’attività teatrale e adesso si occupa di bilanci.
Mike Duff è un video-maker australiano che dopo aver vissuto nel sud est asiatico per alcuni anni si è trasferito in Sierra Leone. Un solo anno, aveva detto. Vive e lavora a Freetown da 9 anni e collabora con BBC, ABC, Al Jazeera come freelance, progettista, direttore della fotografia e cameramen.
Lucio Cascavilla è un attivista e scrittore. Dopo aver vissuto per 10 anni in Cina e aver lavorato ad alcuni cortometraggi e documentari, ha pubblicato tre libri (due sul paese asiatico e 1 di fantascienza). Da quasi due anni vive e lavora in Sierra Leone e collabora a varie riviste e blog online.
Antonio Rignanese è un Digital Strategist e si occupa di comunicazione on line per aziende e professionisti. In passato attivista di Emergency per la provincia di Foggia e Macerata, è da sempre attento e attivo sulle tematiche della cooperazione internazionale e dei diritti umani.
– Per condividere il progetto:
https://www.gofundme.com/f/the-years-we-have-been-nowhere-sostieni-il-doc