Narges Mohammadi, Nobel per la Pace 2023. Un appello per la sua libertà e per quella delle donne iraniane
di Barbara Raccuglia
Inutili i tentativi del regime teocratico di Ebrahim Raisi (presidente della Repubblica islamica d’Iran in carica dal 2021) e di Ali Khamenei (capo delle forze armate e guida suprema dell’Iran, dal 1989), di soffocare le rivolte e il diffondersi di notizie in tutto il mondo, sugli ultimi episodi di violenza emersi a danno del popolo iraniano.
A noi le notizie arrivano, e sono forti.
Forti, come lo sguardo fermo di Narges Mohammadi, che in questa foto appare in una cornice di semplicità e fierezza. Un’immagine che purtroppo, oggi, rischia di tramutarsi in ricordo, per le torture a cui è sottoposta Narges, da diversi anni di prigionia.
Ma la rivoluzione canta versi d’Amore per la Libertà,e non si ferma davanti a niente.
In carne e ossa, una donna che dentro di sé ha dovuto trovare la forza e il coraggio di perseverare nella lotta, nonostante le torture fisiche, i periodi di prigionia iniziati nel 1998, la separazione dai suoi adorati gemelli.
Narges Mohammadi è una nota attivista per i diritti umani in Iran. È conosciuta per il suo impegno costante nella difesa dei diritti delle donne, dei prigionieri politici e dei detenuti.
E’ stata membro attivo del Centro per i Diritti Umani di Teheran insieme a Shirin Ebadi e per questo è stata più volte al centro di persecuzioni da parte del regime.
E’ divenuta simbolo di resistenza e ha ricevuto numerosi premi internazionali, tra cui il Premio Sakharov per la libertà di pensiero nel 2018, e il PREMIO NOBEL PER LA PACE nel 2023.
E’ stata condannata ad un totale di 11 anni e 11 mesi di carcere, 154 frustate e altre sanzioni in due casi separati derivanti esclusivamente dal suo attivismo. Alla fine di aprile 2022 le autorità inquirenti hanno aperto un nuovo caso.
Secondo Amnesty International, Narges è sottoposta a torture e maltrattamenti.
Le sono state negate le cure sanitarie adeguate ai suoi problemi di cuore e per le sue ripetute difficoltà respiratorie.
In questi giorni scopriamo che la sua salute si è aggravata, a causa delle torture subite. Le viene negato il ricovero ospedaliero poiché, secondo le autorità iraniane, rifiuta di indossare il velo.
La sua storia continua ad essere d’ispirazione, nella lotta per i diritti umani e la giustizia, in tutto il mondo. Narges resiste, e resta al fianco delle ribelle e dei ribelli. Riesce a scrivere dei comunicati, di cui in seguito ne riportiamo alcuni, che per noi sono stati particolarmente toccanti.
Estate 2023
“Negli ultimi mesi, abbiamo visto arrivare in carcere donne e ragazze con il volto e il corpo segnati da percosse e ferite. Quando sono arrivate, ognuna di loro sembrava scossa e molto preoccupata. Ci siamo lamentati, ma la violenza fisica contro le donne è diventata così frequente che documentarla e protestare è diventato inutile.
Più di tre mesi fa, una giovane donna di vent’anni è venuta nella nostra sezione. Da tempo lamentava dolori alle costole. La notte in cui era stata arrestata, era stata picchiata dagli agenti di polizia per la strada. Il medico di Evin ha confermato che le sue costole erano rotte.
Un mese fa, una ragazza giovane è entrata in prigione. Le sue guance erano gonfie e rosse; le sue braccia e le sue mani erano coperte di lividi. Un giorno, mentre mangiava, ha iniziato a gemere per il dolore. Una guardia l’ha colpita in faccia, poi un’altra le ha afferrato la mascella e l’ha schiacciata tra le sue mani, tanto che l’abbiamo potuta sentire rompersi.
Qualche settimana fa, una giovane ragazza è entrata in carcere con lividi sulle gambe, sulle spalle e sulle mani. Le altre persone le stavano intorno, guardandola mentre mostrava i suoi lividi. Ha spiegato che era stata picchiata e che pensava di avere una gamba rotta.
Un’altra donna ci ha raggiunti. La mia prima domanda, come sempre, è chiederle se proveniva dall’esterno o da un altro carcere. Mi risponde: «Ero in un luogo dove la polizia mi ha colpito in faccia e mi ha dato un calcio nello stomaco, minacciandomi. In seguito, sono stata trasferita nella sezione 209 di Evin per essere interrogata».
Innumerevoli detenute non raccontano nulla delle violenze patite ai giornalisti, a causa delle minacce subite. Le loro famiglie non ne parlano perché temono rappresaglie da parte delle forze di sicurezza.
Come testimone dell’atroce violenza che il governo sta infliggendo alle donne in lotta, dichiaro che tale brutalità nei luoghi di detenzione illegali è un sistema diffuso di tortura volto a terrorizzare la popolazione, che può portare a disastri irreparabili, come abbiamo visto sempre più spesso negli ultimi mesi.
Invito i miei coraggiosi compatrioti, le organizzazioni internazionali, le femministe di tutto il mondo, i giornalisti e gli scrittori, e il Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, a lottare contro l’escalation e la continuazione della violenza del Governo contro le donne iraniane in difficoltà.
Il governo sa che l’intensificarsi della violenza e della repressione non distrarrà il popolo dal suo desiderio di lasciarsi alle spalle un sistema autoritario e religioso. Al contrario, non lascerà loro altra scelta.
Dal carcere di Ervin – Teheran, giugno 2023
“ Lo scopo delle mie parole è dare un volto agli esseri umani che, ovunque nel mondo, subiscono una prigionia, tra le mura di un carcere o di un paese oppressivo, e che nonostante tutto aspirano a far cadere questi e altri muri: quelli dell’ignoranza, dello sfruttamento, della povertà, della privazione e dell’isolamento.
Sentite in Iran il rumore sordo del muro della paura che s’incrina? Presto lo sentiremo crollare grazie alla volontà implacabile, alla forza e alla determinazione incrollabile degli iraniani.
In quanto donna, e come milioni di altre donne iraniane, mi sono sempre dovuta confrontare con la prigionia imposta dalla cultura patriarcale, dal potere religioso e autoritario, dalle leggi discriminatorie e repressive, e da ogni tipo di restrizione in qualsiasi ambito della mia vita.
La nostra infanzia non è sfuggita a questa prigionia culturale. “Loro” non ci hanno permesso di vivere la nostra giovinezza, e in una parola, la nostra vita. La triste verità, in fondo, è il gopverno autoritario, misogino e religioso della Repubblica islamica ci ha rubato la vita. Da una parte e dall’altra delle mura del carcere di Evin, dove siamo state imprigionate, non siamo rimaste immobili. In quanto donne, a volte sole e senza sostegno, spesso travolte da accuse e umiliazioni, abbiamo spezzato a una a una le nostre catene fino a quando è nato il movimento rivoluzionario Donna, vita, libertà. Allora abbiamo mostrato la nostra forza al mondo.
Al liceo ho studiato matematica e fisica, poi ho proseguito all’università gli studi di fisica applicata. Sono diventata ingegnere. Tuttavia, a causa del mio impegno per i diritti umani, la mia formazione e la mia carriera si sono scontrate con “il muro dell’ostruzione”. Ho fatto la giornalista ma, per ordine della guida suprema della Repubblica islamica e dopo la chiusura dei mezzi di informazione indipendenti, i nostri giornali e le nostre riviste sono finite sotto “ il muro della censura” e la nostra libertà di espressione è stata imbavaglaita. Sono diventata portavoce del Centro per la difesa dei diritti umani, per partecipare alla formazione in Iran di un grande movimento associativo e tentare di dare corpo a una società civile organizzata, reale e forte.
Ahimè, queste organizzazioni si sono scontrate con la barriera innalzata dalle autorità, dopo attacchi ripetuti dalle forze di sicurezza, sostenute dai servizi segreti e dai guardiani delal rivoluzione. Ho protestato e lottato contro le politiche distruttive e repressive, al fianco di migliaia di manifestanti e oppositori che sono stati anch’essi accerchiati dalle mura della prigione, dell’isolamento e della tortura.
Infine, sono diventata “madre”, ma da molto tempo tra me e i miei figli si è levato il “muro dell’emigrazione e dell’esilio forzato”, coem per centinaia di migliaia di altre madri che soffrono l’allontanamento dei propri figli. Mi mancano le parole per descrivere questa maternità rimasta dietro “ il muro della crudeltà e della violenza”.
Nonostante questa prigione in cui ci troviamo non abbiamo mai smesso di batterci. Siamo diventate madri e padri universali, abbiamo conservato i nostri valori, il nostro entusiasmo, il nostro amore, la nostra forza e la nostra vitalità, abbiamo ricreato la vita vera. Anche se ostacolate da tutte queste serrature, siamo state capaci di far emergere il potere di chi si oppone e la forza della contestazione. Il nostro impeto ci ha portato più in alto dei muri che ci opprimono e ora siamo più forti e solide di loro. Se le nostre sbarre sono l’immobilità, il silenzio e la morte, noi siamo movimento, eco e vitalità, ed è qui che si disegna la promessa della nostra vittoria.
Il governo della Repubblica islamica nega i diritti fondamentali alla vita, alla libertà di opinione, d’espressione e di religione; il diritto a praticare la danza e la musica, e perfino il diritto all’amore. Se guardate con attenzione la società iraniana vedrete che ciascun individuo, in ogni momento della sua vita e in ogni luogo, è colpevole del desiderio di vivere. Rischia per questo reato le sanzioni peggiori, di essere puntio, umiliato, arrestato, tenuto in carcere e perfino di essere condannato a morte.
Ognuno di noi è diventato oppositore al regime. Il mondo è testimone delle proteste in Iran e della creatività del movimento, che ogni giorno inventa nuove forme di mobilitazione. Questo movimento conduce a una transizione che passo dopo passo allontana la Repubblica islamica e ci porta verso la democrazia, l’uguaglianza e la libertà. Il ruolo dei mezzi di informazione indipendenti, delal società civile, delel organizzazioni per i diritti umani, in tutto il mondo, è cruciale in questa lotta.
Care lettrici, cari lettori, la pubblicazione di questa lettera dimostra che la nostra voce è stata abbastanza potente da raggiungervi. Siate anche voi la nostra voce, trasmettete il nostro messaggio di speranza, site al mondo che noi non siamo dietro queste mura per nulla e che ora siamo più forti dei nostri aguzzini che usano tutti i mezzi possibili per mettere a tacere la nostra società. Questa voce risuonerà nel mondo. Questo orizzonte ci motiva e ci rallegra. Trionferemo insieme. Sperando di veder arrivare molto presto quel giorno“.
(da Internazionale n. 1533 13/19 ottobre 2023)
Nel 2015, ha scritto questa lettera personale dal carcere per esprimere cosa significasse per lei la separazione dai suoi due figli:
“I miei gemelli sono nati il 28 novembre 2006. Non mi è stato permesso di tenere in braccio mio figlio Ali e mia figlia Kiana quando sono nati perché la mia salute non era buona. Potevo vederli semplicemente attraverso la porta dell’ospedale. Sembra che il loro destino sia quello di separarsi da me fin dalla nascita. Quando li ho presi tra le mani per la prima volta, ho dimenticato tutte le ferite del taglio cesareo, le difficoltà che avevo a respirare, la paura della morte e tutto il dolore. Sono diventata madre. Quando Kiana e Ali avevano tre anni e mezzo, Kiana era malata e io tornai a casa dall’ospedale con lei.
Proprio in quel momento i servizi vennero ad arrestarmi. Ali stava piangendo. L’ho messo sulle mie ginocchia e gli ho cantato una ninna nanna finché non si è addormentato. Kiana era sconvolta. L’ho tenuta. L’ho baciata. Le ho chiesto “Kiana, perché non dormi Gold?”. Lei rispose “Non ho voglia di dormire, voglio stare tra le tue braccia”.
I poliziotti mi hanno detto che dovevamo andare. Ho provato ad allontanare Kiana da me. Si teneva al mio collo con tutte le sue forze e piangeva a squarciagola. Scesi lentamente le scale. L’ho sentita dire “Madre Narges, vieni a baciarmi”. Sono tornato e l’ho baciata. Questo è successo tre volte. Ho ascoltato il grido del bambino che mi è più caro della vita. Mi ha spezzato il cuore separarmi da lei. Sono stato messo in isolamento nel reparto 209 della prigione di Evin a Teheran. Era la stanza delle torture di una madre separata dal figlio malato.
Una notte ho dormito in cella. Era prima dell’alba. La mia dolce figlia, mi ha baciato sulla guancia. Ho sentito il suo corpo caldo e le sue piccole labbra sulla mia guancia. Era Kiana. Allargo le braccia per abbracciarla. Ho aperto gli occhi. Non era Kiana. Ho pianto per molte, molte ore, finché non ho avuto più lacrime.
Quando Kiana e Ali avevano quattro anni e due mesi, le forze di sicurezza hanno sfondato la porta ed sono entrate in casa mia. Kiana era seduta sulle mie ginocchia con le sue braccine attorno al mio collo. Aveva paura e mi teneva stretto. Ali era molto turbato. Ha seguito la polizia e li ha avvertiti di “non toccare le mie cose”. Hanno portato mio marito Tagi giù per le scale. Chiusero la porta e lo sguardo di Kiana era fisso sul pavimento. Si sdraiò e continuò a piangere.
Quando Kiana e Ali avevano 5 anni e 5 mesi, le forze di sicurezza vennero a portarmi al Ministero dell’Intelligence. Ali correva in giro con la sua pistola giocattolo gialla urlando che voleva venire con me. La mia cara Kiana mi ha tenuto il vestito e ha detto: “Madre Narges, non andare!”. Con difficoltà mi sono separato dai bambini e sono uscito di casa mentre piangevano e sono salito in macchina con i poliziotti.
Quando Kiana e Ali avevano 8 anni e 6 mesi, il 5 maggio 2015, andarono a scuola alle 7 del mattino. Alle 8:30 i servizi di sicurezza mi aspettavano già alla porta. Hanno detto che dovevo venire con loro e mi hanno portato nella prigione di Evin.
Ali e Kiana hanno lasciato l’Iran il 17 luglio 2015. Durante l’ultima visita di Kiana in prigione mi ha detto:
Mamma, mentre non sarai qui, andremo a stare con papà, finché non ti unirai a noi. Ali mi ha chiesto se sarei stato triste e si è concentrato per vedere la mia reazione. Ho cercato di sembrare felice in modo che non si preoccupassero per me. Stavo annegando nei miei pensieri. La mia cara Kiana e Ali presto se ne andranno e si separeranno da me. Caro Dio, non vedevo l’ora che arrivassero le settimane e i giorni di visita. La domenica mattina correvo per la prigione mentre li aspettavo. Ero pieno di energia dopo averli ascoltati e sentito la loro presenza. Nella mia mente ho cominciato a parlare ai bambini:
Cari Ali e Kiana, avete tutto il diritto di lasciare un Paese il cui leader non riconosce e riconosce il vostro diritto e il vostro mondo. Quante volte feriranno i vostri cuori piccoli e innocenti e vi guarderanno piangere mentre vi separate da me? I miei cari Kiana e Ali. Entrambi avete sopportato più sofferenze nella vostra vita di quanto non siate consapevoli e di quanto potreste mai immaginare. Non lo so, forse sarebbe più facile per te vivere in una società in cui l’amore e il legame tra una madre e i suoi figli sono apprezzati e compresi, anche se non sono accanto a te. So che questa separazione sarà dura, ma non posso sopportare di vedere le tue lacrime, le tue paure e le tue insicurezze. Farei tutto ciò che è in mio potere per proteggerti dal dolore. Mio caro, per favore perdonami. Le punizioni che le autorità mi hanno rivolto hanno colpito anche te. In soli 8 anni e mezzo hai sopportato più sofferenze di quanto potresti mai immaginare. Il mio petto sta bruciando. Guardo l’orologio e vedo Ali e Kiana prendere l’aereo. E io, madre sofferente e stanca di soffrire, sono rimasta in Iran. Il mio cuore si è spezzato in cento pezzi. Le mani, senza alcuno sforzo, si alzano al cielo. Caro Dio, prendi le mie mani e dammi la pazienza di cui ho bisogno. Non vedrò i loro volti innocenti per molto tempo. Non sentirò le loro voci. Non ne sentirò l’odore mentre li tengo tra le mani. Oh Dio, le mie mani sono così fredde e vuote senza i miei figli dentro. Il mio petto sta bruciando. Le mie guance bruciano per le lacrime che mi rigano il viso. La lava che esce dai miei occhi è come il fuoco che esce dal profondo del mio cuore.”
Lettera aperta che scrisse al Presidente della Repubblica islamica Mahmud Ahmadinejad, gennaio 2010
“Egr. Dott. Ahmadinejad,
sono Narges Mohammadi, giornalista, laureata in fisica, moglie di Taghi Rahmani e madre di due gemelli di soli tre anni. Sono un’attivista del Centro dei Difensori dei Diritti Umani in Iran, che è stato recentemente chiuso illegalmente, nonché del Consiglio Nazionale della Pace. Da quando è stata messa al bando la stampa democratica iraniana, il 22 settembre 2001, fino a 19 novembre 2009, sono stata impiegata, con un contratto regolare, presso la Società per le Ispezioni Ingegneristiche facendo parte del gruppo specialistico per ispezione industriale e mineraria. Il 19 novembre 2009 sono stata licenziata. Questo è un breve curriculum di una donna 36 enne iraniana. E’ bene che lei sappia che il mio ordine di licenziamento, prima di essere notificato a me, ha seguito un iter attraverso le forze di sicurezza. Nel mese di khordad 1387 (maggio-giugno 2008), tornando da una riunione dei difensori dei diritti umani e degli esperti delle Nazioni Unite, tenutasi a Vienna, sono stata convocata e interrogata dagli agenti del Ministero dell’Intelligence del Suo Governo. L’8 maggio 2009, quando stavo per recarmi in Guatemala per partecipare ad un convegno internazionale delle donne, mi è stato illegalmente impedito di lasciare il Paese, e non ero stata accusata di alcun reato, e infatti non sono mai stata chiamata in giudizio come imputata. Il mio passaporto è stato sequestrato all’aeroporto e da allora non ho un passaporto. Per questo motivo ho dovuto un’altra volta presentarmi agli agenti dell’intelligence i quali mi hanno chiesto apertamente di abbandonare le mie attività nel Consiglio Nazionale della Pace e nel Centro dei Difensori dei Diritti Umani; in caso contrario la minaccia era di ricevere restrizioni ancora più severe.
Il 18 giugno scorso, cioè sei giorni dopo le recenti elezioni, sono stata nuovamente minacciata per telefono da un agente dell’intelligence: se avessi proseguito con la minima attività e non avessi lasciato Teheran, sarei stata arrestata insieme ai miei piccoli bambini. Più tardi, in un’altra convocazione gli agenti, come ultimo avvertimento, mi hanno riferito che se non avessi lasciato il Centro dei Difensori dei Diritti Umani e il Consiglio Nazionale della Pace e non avessi interrotto tutti i rapporti con il Premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi, sarei stata licenziata e arrestata.
In Settembre, dopo essere stata accettata per un corso di specializzazione, ho chiesto al Ministero dell’Intelligence di restituirmi il mio passaporto, mi è stato detto che il Ministero aveva un parere negativo su di me e che non avrei potuto partecipare al corso se non avessi cambiato idea sulle loro proposte.
E alla fine, in data del 19.11.2009, l’amministratore delegato dell’azienda dove lavoravo mi ha informata di aver avuto richiesta di licenziarmi; quando ho chiesto una lecita spiegazione, mi sono sentita dire che era una decisione dettata dall’alto. Mi consigliò di approfittare dell’ultima occasione e parlare con gli agenti per non farmi licenziare; anche lui a sua volta mi aveva chiesto di porre fine alle mie attività. Quando ho spiegato i miei punti di vista egli mi confermò che doveva licenziarmi.
Sono stata licenziata lo stesso giorno, in meno di un’ora.
Ora vorrei dirle quello che penso.
Mi ricordo quando, dopo una stagione di riforme, Lei è diventato il Presidente della Repubblica, ha fatto tante promesse di “amore” e di generosità e ha detto che portava al tavolo degli iraniani gli utili del petrolio. Mentre quello che testimoniano questi tempi amari è una espressione opposta, cioè la vendetta, la violenza nella sua forma più nuda e cruda.
Sicuramente non sono poche le persone alle quali da anni è stata negata la possibilità di studiare ed io sono una goccia in questo mare tempestato di ingiustizia e oppressione. Parlo di donne e di uomini che per le loro idee diverse da quelle del regime hanno subito privazioni pesanti e le loro famiglie sono state vittime di gravi e illimitate violenze. Allora, forse dovevo tacere e vergognarmi di parlare di cose che erano accadute a me.
Però, dobbiamo parlare e scrivere dei nostri diritti costituzionali e non tacere, fino al giorno in cui nel nostro paese il diritto allo studio e il diritto al lavoro vengano considerati come diritti di persone e non come uno strumento di minaccia nelle mani di un regime.
Quindi, mi sono permessa di chiedere: per quale colpa i miei piccoli bambini devono essere vittime delle vendette del regime.
Il padre di questi bambini è stato 15 anni nelle carceri di questo regime ma continua ad essere un attivista civile, politico e rispettoso delle leggi. Per essere stato incarcerato diverse volte dai primi anni della Repubblica Islamica, egli non ha potuto portare a termine i suoi studi di storia presso l’Università di Tabriz, e a causa dei lunghissimi periodi di detenzione non ha mai potuto avere un impiego. Forse è facile parlarne, ma vivere così ed essere privati di ogni diritto in questo dissestato paese è davvero difficile.
Ed io, che non sono stata riconosciuta colpevole da nessun tribunale e sono soltanto un’attivista di diritti umani e una pacifista, ora devo subire vari generi di privazioni volute dal Ministero dell’Intelligence, che invece dovrebbe salvaguardare la sicurezza dei cittadini.
Essere attivisti di diritti umani e dedicarsi alla pace può essere considerata una tale colpa imperdonabile da privarci del diritto di avere un pezzo di pane?
Se un regime aspira al governo di Imam Ali, sa che Imam Ali non ha mai privato un oppositore dei mezzi di sostentamento. Mentre le mie attività sono nell’ambito dei diritti umani, e il nostro scopo nel Centro per i Diritti Umani è di migliorare la situazione di diritti umani in Iran. E Lei ben sa che in tutte le società i pacifisti sono rispettati e ammirati e non oggetto di umiliazioni e minacce.
Sono le nostre attività per alleviare un po’ il dolore delle famiglie dei detenuti a provocare una tale ira del regime o le nostre attività pacifiche nell’ambito del Consiglio Nazionale della pace, contro ogni forma di violenza, pesano tanto ai signori del potere?
La vera domanda è: il suo “amore” promesso più di quattro anni fa riguarda solo la limitata cerchia di persone che La circondano?
Non crede che questo suo modo di trattare i propri connazionali, appartenenti a qualsiasi gruppo o ideologia, sarà considerata dal popolo iraniano e dalla storia come una grande e imperdonabile ingiustizia? Togliere il pane dalla bocca dei nostri bambini innocenti è una dimostrazione di generosità (“amore”) di questo regime e un segno di governare secondo i principi di Imam Ali?
Io ho lavorato 8 anni in un campo di ispezioni ingegneristiche dell’industria in Iran, anche su progetti nazionali importanti; lettere elogiative conservate nella mia pratica lavorativa testimoniano un ottimo svolgimento del lavoro che mi è stato affidato. Nonostante i responsabili dei progetti per i quali ho lavorato fossero soddisfatti della mia attività lavorativa svolta, sono stata licenziata nel giro di un’ora solo perché non ho accettato le proposte del Ministero dell’Intelligence del Suo Governo.
Non crede che trattare così un connazionale non è soltanto illegale ma è anche vile, immorale e disumano, mentre gli iraniani sono famosi per essere magnanimi e gagliardi?
In conclusione, mentre posso pensare, scrivere ed esprimere il mio pensiero liberamente e lontano dalle torture, che è ciò che conta, sono convinta: che il Centro dei Difensori dei Diritti Umani e il Consiglio Nazionale della Pace sono associazioni sociali e legali in Iran, che hanno avuto l’approvazione del fiero popolo iraniano; che per me è un grande onore collaborarci e servirle; e anche che il Premio Nobel per la Pace Signora Ebadi è una donna molto coraggiosa che ha dedicato la propria vita alle attività per la pace e per i diritti umani; che collaborare con i pacifisti del mondo non è criticabile e condannabile ma, al contrario, è di grande pregio. La pace e la difesa dei diritti umani contro le guerre e le violenze fanno parte dei grandi obiettivi della storia dell’umanità, al raggiungimento dei quali io mi dedicherò sempre di più.”
(da azionenonviolenta.it)
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