Caregivers: una testimonianza e una richiesta importanti
di Anna Mognaschi
Caregivers è una parola inglese che significa “Colui o colei che si prende cura; prendersi cura, quindi, di una persona che non è autosufficiente in un dato momento della sua vita. Io sono caregiver da più di trent’anni. Ho una figlia disabile in carrozzina che si chiama Martina. Essere caregiver è un lavoro perché di lavoro si tratta e per 24 ore al giorno per tutto l’anno.
Un caregiver deve essere molte cose tutte insieme indipendentemente dal ruolo che ha nella famiglia di moglie, madre, figlio, marito o padre: io sono maestra, infermiera, psicologa, amica, e madre. Alcuni pensano che essere caregiver sia un dovere divino o una punizione: io penso sia semplicemente un dato di fatto. Parlerò semplicemente della mia esperienza perché non voglio che nessuno si senta offeso o non si riconosca in quello che dico (noi portatori di cure siamo anche un po’ permalosi).
Ho lasciato il lavoro perché nessuno poteva prendersi cura di mia figlia tranne me. La mia famiglia ha avuto una vita faticosa non infelice, ma molto faticosa. Abbiamo rinunciato a molto, soprattutto per il problema delle barriere architettoniche che riempiono le nostre città; abbiamo faticato molto per portare Martina a scuola e all’università per la questione della mobilità cittadina; abbiamo obbligato asili e scuole ad installare rampe, scivoli e montascale attraverso l’aiuto di associazioni di settore perché le istituzioni sono sempre state latitanti; abbiamo rincorso bonus, sovvenzioni, agevolazioni, regalucci vari sempre scoperti attraverso il solo passaparola; abbiamo cercato soluzioni impossibili per recarci al mare, in montagna e in città d’arte perché abbiamo sempre voluto che nostra figlia facesse più esperienze possibili. Inoltre, vivere tutto questo tempo insieme porta inevitabilmente a una specie di simbiosi per cui ad un certo punto non ci distinguevamo più l’una dall’altra. È forse questo il problema più importante secondo me di un caregiver: riuscire a dare l’autonomia dovuta alla persona di cui ci si prende cura, qualunque sia la gravità della sua disabilità. È stata una presa di coscienza lenta e dolorosa riuscire a creare una sorta di distacco fra di noi e l’abbiamo fatto con un gruppo di auto-mutuo aiuto composto da persone nella nostra stessa situazione.
Una cosa che ancora non riesco ad accettare è il mancato riconoscimento da parte delle istituzioni del mio ruolo di educatrice, infermiera, maestra, psicologa, operatrice socio sanitaria, operatrice socio assistenziale, educatrice domestica etc. etc. Molto più semplice sarebbe stato affidare mia figlia ad un istituto che sarebbe costato alla Regione o al Comune migliaia di euro ogni mese: ma chi appartiene al settore di competenza fa proprio affidamento sull’amore tra familiari per lasciare completamente in mano alle famiglie la cura delle persone non autosufficienti, elargendo ogni tanto un contentino che non è mai sicuro per gli anni a venire, in modo che si possa vivere in un totale senso di incertezza che fa molto bene alle nostre coronarie!
A 36 anni dalla nascita di Martina molte cose sono migliorate, soprattutto nella mobilità cittadina (abitiamo nel quartiere Comasina, a Milano) e nell’erogazione di alcune misure per poter accedere ad un assistenza personalizzata; erogazione annuale, concessa ovviamente secondo il budget a disposizione delle istituzioni, quindi ansia e tormento fino alle prossime graduatorie: come dicevo prima, questa è la mia esperienza e non posso parlare a nome di altri che non conosco, ma per quelli che conosco – e sono tanti – la situazione è simile alla mia.
Ho settant’ anni e quello che desidero di più ancora è il riconoscimento giuridico e formale della nostra posizione di caregivers, una possibile pensione e uno stipendio per chi di noi è in età lavorativa e che la passiamo ad accudire i nostri cari.