Fast fashion che se ne frega
di Anna Mognaschi
“Fast fashion” prende il nome da “fast food”, cibo veloce da mangiare in fretta, a poco prezzo e a qualsiasi ora del giorno perché già pronto, ma invece che alzare il colesterolo la fast fashion inquina il pianeta e lede i diritti umani, quindi direi un po’ più pericolosa (anche il fast food crea una massa di persone obese con tutte le conseguenze del caso, ma di questo parlerò in un altro articolo).
Nasce dall’esigenza di avere sempre capi nuovi da indossare per ogni occasione, di cambiare più volte al giorno il proprio outfit,
un’esigenza imposta non innata o necessaria, un’esigenza nata dal consumismo e dalla falsa estetica propinata dai social.
È vero che è giusto e auspicabile poter disporre di capi di abbigliamento a un prezzo abbordabile perché non tutti hanno soldi da spendere, ma dovremmo porci la domanda perché questi capi non durino mai più di qualche mese; inoltre, sotto il fascino dei prezzi bassi e dei rapidi cicli della moda si nasconde una grave crisi ambientale e un drammatico sfruttamento dei lavoratori.
Non è un segreto che la moda abbia un problema di rifiuti. A livello globale, ogni anno vengono create circa 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili; entro il 2030 si prevede che nel complesso scarteremo più di 134 milioni di tonnellate di tessuti all’anno.
“Tutti i vestiti che donerai saranno riciclati o riutilizzati, senza che nulla vada in discarica”, si legge spesso negli grandi store, da H&M a Primark. Ma quanto c’è di vero?
La ONG Changing Markets Foundation ha utilizzato Apple AirTag per tracciare 21 capi tra cappotti, pantaloni, giacche e altri indumenti di seconda mano, ma in perfette condizioni. La ONG olandese ha donato gli articoli ai negozi H&M, Zara, C&A, Primark, Nike, The North Face, Uniqlo e M&S in Belgio, Francia.
“Le promesse fatte da H&M, C&A e Primark sono un altro trucco greenwashing per i clienti”, afferma la responsabile della campagna di Changing Markets, Urska Trunk. La nostra indagine suggerisce che gli articoli in perfette condizioni vengono per lo più distrutti, bloccati nel sistema o spediti in tutto il mondo verso Paesi che sono meno in grado di gestire il vasto torrente di indumenti usati provenienti dall’Europa. Gli schemi aggiungono la beffa al danno offrendo ai clienti buoni-sconto o punti per acquistare più vestiti, amplificando il modello fast fashion che trabocca di rifiuti.
L’industria della moda è responsabile di impatti ambientali significativi, contribuendo al 10% delle emissioni globali di carbonio e all’inquinamento dell’acqua.
Poi c’è la questione non meno importante dei diritti umani: in Bangladesh, ad esempio, ci sono almeno 3500 industrie che lavorano per marchi occidentali e i lavoratori percepiscono salari da fame, spingendo spesso le famiglie a fare lavorare anche i bambini per potersi mantenere. Attualmente molti di questi lavoratori sono in sciopero e stanno combattendo per una vita più dignitosa anche contro la polizia che controlla l’ordine pubblico a suon di sprangate e che ha causato almeno un morto, ogni volta.
Quindi sfruttamento anche minorile , inquinamento, negazione dei diritti fondamentali: come la vogliamo risolvere?
Fermiamoci a pensare, veramente ci servono tutti quei vestiti?
Veramente abbiamo bisogno di cambiare abbigliamento così di frequente? Perché compriamo robaccia per poi buttarla?
Io indosso per tutto l’inverno tre paia di pantaloni e non mi sono mai sentita inferiore a nessuno.
E poi lo stress di scegliere ogni giorno…ma basta.
Viva la libertà dal fashion!