Inuit: la magia della vita
di Barbara Raccuglia
Con Spiralkampagnen: Forced Contraception and Unintended Sterilisation of Greenlandic Women di Juliette Pavy, vincitrice del Sony World Photography Awards 2024, scopriamo che tra il 1966 e il 1975, quasi 4500 donne e ragazze indigene furono sottoposte a trattamenti di contraccezione forzata, senza consenso, attraverso l’impianto di spirali intrauterine.
Le autorità danesi decisero di attuare un programma di manipolazione eugenetica, al fine di portare la popolazione Inuit ad una drastica riduzione del tasso di natalità. Un caso ennesimo di razzismo, dove un gruppo di persone (come nella maggior parte dei casi europei), sceglie le sorti di un popolo altro, considerato non civile, pena le loro usanze lontane, da abitudini bene adattate alle società del capitale.
La prima donna, ad aver raccontato la sua esperienza, è Naja Lyberth, oggi psicologa ed attivista. Quando aveva 13 anni, nei primi anni ’70, un medico disse a Naja di recarsi all’ospedale locale per un piccolo intervento, in seguito a una visita medica scolastica di routine. “Non sapevo bene di cosa si trattasse perché non mi ha mai spiegato né chiesto il permesso”, racconta Naja, che all’epoca viveva a Maniitsoq, una piccola città sulla costa occidentale della Groenlandia. “Avevo paura. Non potevo dirlo ai miei genitori”, racconta alla BBC. “Ricordo i dottori in camice bianco, e forse c’era un’infermiera. Ho visto le cose metalliche, dove si dovevano aprire le gambe. Era molto spaventoso. L’attrezzatura usata dai medici era così grande per il mio corpo di bambina: era come avere dei coltelli dentro di me”.
Naja ed altre 66 donne inuit, hanno deciso di fare causa al governo danese, per la contraccezione forzata chiedendo un grosso risarcimento economico, al momento non quantificabile.
Il governo di Copenaghen, e quello autonomo della Groenlandia hanno aperto un’inchiesta, grazie a un podcast prodotto dalla tv danese nel 2022.
Quest’ultima è riuscita a trovare documenti relativi al programma del governo danese volto a limitare le nascite della popolazione inuit per risparmiare sul welfare. La campagna, definita Danish Coil Campaign, portò al dimezzamento del tasso di natalità in Groenlandia. In seguito al clamore suscitato dalla presa di coscienza di questi eventi, il governo danese ha istituito una commissione d’inchiesta per far luce sulle vicende che avvennero tra il 1960 e il 1991, anno in cui il sistema sanitario dell’isola divenne autonomo. La promessa di Copenaghen è quella di pubblicare l’esito delle indagini nel 2025. Molte vittime della campagna hanno però già espresso la loro contrarietà sui tempi di attesa.
Oggi al posto di eschimesi, termine dal significato dispregiativo in quanto significa “coloro che mangiano carne cruda”, viene utilizzato il termine inuit, nella lingua inuktitut “il popolo”. Gli inuit rappresentano oggi l’89% della popolazione totale della Groenlandia, che si aggira intorno alle 57mila persone. L’isola, la più grande, nonché l’area più a nord del mondo, è divenuta parte del regno danese tramite formula dell’unione personale nel 1953. Grazie a quest’ultima, Groenlandia e Danimarca condividono il capo di Stato mantenendo però autonomia di istituzioni e di governo. La lontananza ha sempre permesso a questo popolo di vivere in un isolamento quasi totale fino all’arrivo delle flotte baleniere nel secolo scorso. Da allora la Danimarca ha cercato di “portare la civilizzazione al popolo inuit, in modo che permettesse loro di sopravvivere come popolo” spiegava il Dipartimento per l’amministrazione della Groenlandia nel 1952.
I dispositivi impiantati, in molti casi, risultarono troppo grandi per i corpi delle ragazze, spesso bambine, andando a causare seri problemi di salute, da dolori acuti, a emorragie interne e infezioni addominali, e in alcuni casi, anche all’infertilità. Molte donne rimasero per decenni all’oscuro di aver subito questa pratica, finché i dispositivi non vennero trovati da altri ginecologi.
Il governo dovette inoltre, di recente, scusarsi e pagare un compenso a 6 inuit che erano stati portati via dalle loro famiglie negli anni 50 come parte di un piano per la costruzione di una élite di lingua danese in Groenlandia. Il progetto allora prevedeva la separazione di 22 bambini tra i sei e i dieci anni dalle loro famiglie inuit per essere educati in Europa. L’obiettivo finale era quello di poter facilitare da adulti una modernizzazione della società groenlandese. Dei 22 bambini, solo 16 fecero ritorno in Groenlandia l’anno successivo, gli altri vennero adottati da famiglie danesi. Al rientro, vennero obbligati a vivere in un orfanotrofio per preservare le abitudini e la lingua imparate in Danimarca. Questo portò a un forte allontanamento dei bambini non solo dalla loro cultura, ma dalle famiglie e dalla comunità. Anche in questo caso i bambini, parte dell’esperimento, rimasero spesso all’oscuro del reale motivo per cui da piccoli erano stati separati dalla famiglia. Fatti che emersero grazie a ricerche eseguite nell’archivio nazionale.
Similmente, l’anno scorso, il governo canadese è stato costretto a sborsare 2,8 miliardi di dollari di risarcimento a causa di un processo di assimilazione forzata avvenuto tra il 1884 e il 1998. Un processo in cui i bambini delle popolazioni Inuit e Métis venivano strappati alle loro famiglie per ricevere un’assimilazione culturale forzata all’interno di scuole residenziali governative. L’obiettivo del progetto era quello di compiere un vero e proprio genocidio culturale, sradicando definitivamente lo stile di vita degli aborigeni nel territorio canadese, e utilizzando anche metodi particolarmente violenti nel farlo. Dei 150mila bambini che fecero parte del progetto, buona parte morì a causa di malattie e malnutrizione, e chi sopravvisse raccontò storie di violenza fisica, sessuale e psicologica.