Dietro ogni etichetta c’è una persona
di Sabrina Minervini
“Se t’inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli
In quell’aria spessa, carica di sale, gonfia di odori
Lì ci troverai i ladri, gli assassini e il tipo strano
Quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano
Se tu penserai e giudicherai da buon borghese
Li condannerai a cinquemila anni più le spese
Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo
Se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo“
Questa è l’ultima strofa de “La città vecchia” (Fabrizio De André)
Non ci sono parole più adatte per spiegare l’importanza di non giudicare una persona da ciò che ha fatto, ma dal conoscere
prima i motivi che ha spinto l’individuo a commettere un qualsiasi reato.
Cercherò di spiegarvi le mie sensazioni di quando ho assistito ad un evento presso il teatro del carcere di Opera, uno dei tantissimi
organizzati dal dottor Juri Aparo, psicologo e psicoterapeuta presso diverse carceri milanesi.
Durante questo evento è stato possibile ascoltare alcune testimonianze di detenuti che hanno commesso dei reati ed i motivi
che li hanno spinti a commetterli. Inoltre hanno ammesso che, durante il loro percorso in carcere, hanno preso totale
consapevolezza di ciò che hanno fatto e hanno raccontato la loro storia di vita.
Oltre alle testimonianze toccanti dei detenuti ci sono stati alcuni collegamenti musicali scelti in base ad ogni storia; ad ogni testimonianza, infatti, era collegata una canzone di Fabrizio De Andrè poiché i personaggi di questo cantautore si
rispecchiano molto con le storie raccontate.
Ad aiutarli nel loro cambiamento è stato soprattutto il “gruppo della trasgressione” coordinato dal dottor Juri Aparo, un gruppo formato da detenuti, ex detenuti, studenti, dove è possibile analizzare il proprio percorso di vita e confrontarlo con alcuni personaggi come
Caravaggio o Dostoevskij; ad esempio grazie all’analisi del romanzo “Delitto e castigo” è stato incredibile quanto i membri di questo gruppo si siano resi consapevoli “dell’esistenza dell’altro” e che il dolore è sia di chi subisce il reato sia di chi lo commette.
E’ stata davvero toccante la testimonianza di una madre che ha detto: “quando ti ammazzano un figlio ti verrebbe da chiuderti in te
stessa e piegarti dal dolore, io per non piegarmi ho voluto entrare in carcere e conoscere il dolore che è presente all’interno.”
Assistendo a questo evento mi sono resa ancora più conto di non dover “etichettare” una persona per quello che si sa di lei o per quello
che ha fatto, ma di ascoltare prima la sua storia.
Ascoltare le testimonianze di ex detenuti che sono diventati genitori, lavoratori, che sono cambiati in meglio mi fa capire che il lavoro di autoanalisi svolto da questo gruppo è qualcosa di straordinario e ascoltare le persone che stanno ancora scontando la loro pena in
carcere mi ha dato un’idea limpida di ciò che vorrebbero per il proprio futuro sia per se stessi sia per i loro cari e mi ha resa ancora più
consapevole di ciò che vuol dire mettersi in discussione .
Concludo dicendo che questo tipo di lavoro non serve solo a chi ha commesso o ha subìto un reato ma anche alla gente “comune”
disposta a non fermarsi alle apparenze e a non rimanere “chiusa “nelle proprie convinzioni ma che, al contrario, può imparare a non ”condannare a cinquemila anni “, ma a crescere e a conoscere questo mondo di cui non si sa mai abbastanza.