Intervista a Francesco Piobbichi, autore del libro di disegni “Disegni dalla frontiera”
di Veronica Tedeschi
I colori vivi dei disegni di Francesco Piobbichi, che da 4 anni vive a Lampedusa al fianco dei migranti, sono forti, come le storie che ha deciso di raccontare attraverso i tratti delle sue matite.
La fatica di dover superare delle frontiere e la sofferenza per l’aver sfidato il “viaggio della morte”, sono sentimenti che ricorrono in tutti i suoi disegni.
Come da sue parole, Francesco vuole colpire al cuore e non alla pancia perché le migrazioni sono un fatto che riguarda anche la nostra quotidianità; è inutile, infatti, parlare di numeri o fare considerazioni generiche. Raccontare storie e vite attraverso dei disegni è un nuovo modo di raccontare le vite di persone come noi, costrette a lasciare la loro casa e i loro cari per avere una vita migliore.Disegni dalla frontiera, il tuo ultimo libro, è un racconto necessario di storie altrimenti consegnate al mare. Un libro di disegni forti ma colorati, intensi e molto umani.
Cosa ti ha spinto a voler disegnare e raccontare ben 59 storie che parlano di migranti, frontiere e sofferenza?
Mi ha spinto la necessità di creare qualcosa di diverso nella narrazione della frontiera che si sviluppava sul piano generale perché mi ero accorto, nel lavoro che facevo, che la retorica di fondo usava il migrante come oggetto emozionale senza restituirgli dignità. E’ come se le persone e le loro storie venivano fissate e poi vendute nella fabbrica delle emozioni senza un prima ed un dopo, senza collegarsi mai con la realtà. Nella maggior parte dei casi, ovviamente ci sono molte eccezioni positive, le notizie, le immagini, i docufilm della frontiera non stavano riuscendo a costruire, dal mio punto di vista, il racconto sociale. Ovvero un terreno comunicativo che manteneva vive e collegate le pratiche sociali ed il racconto.
Le immagini, le foto, ed i docufilm vivevano di una traiettoria propria, non erano fatti, ma artefatti destinati a perdersi nella memoria quando altre notizie si stratificavano sopra. Per chi lavora nelle pratiche sociali della solidarietà in frontiera questo meccanismo non era sufficiente, noi abbiamo bisogno di continuità comunicativa, abbiamo la necessità di raccontarci a partire da noi, dal nostro vissuto e facendo questo costruire possibilità per la presa di voce dei migranti. Ho pensato allora di usare il disegno nel racconto, ispirandomi ai cantastorie siciliani come Ciccio Busacca che in termini semplici riuscivano a creare uno spazio comunicativo che lasciava il segno. L’arte così è al servizio del racconto sociale, e non viceversa.“Il canto della sirena d’Occidente”, “Lampedusa salva vite”, “Ciao mamma, sono vivo”, “Chi salva una vita salva il mondo intero”, sono solo alcuni dei titoli dei tuoi disegni. Da 4 anni vivi a Lampedusa, e fai parte dello staff dell’Osservatorio per le migrazioni di Mediterranean Hope; grazie a tutto questo hai potuto raccogliere molte storie ma quale è stato il disegno più forte da fare? Vuoi raccontarci qualche episodio che ti ha spinto a disegnare proprio quelle scene con esattamente quei colori?
Ogni tavola che ho disegnato potrebbe essere usata come un “tarocco”, ovvero come una immagine intercambiabile che racconta una storia epica, che è la storia dell’umanità. Uso molto i miti fondativi della cultura mediterranea, mi servono per sintetizzare concetti che a pensarci bene sono sempre gli stessi da millenni. Il canto della sirena d’occidente apre il mio libro perché voglio sottolineare il fatto che la migrazione che stiamo vivendo non è solo il frutto di guerre o miseria o dei cambiamenti climatici. Ma è anche il frutto del sogno di un altrove diffuso come fattore produttivo e di consumo, un canto bellissimo che non viene mai raggiunto perché non esiste ma porta sugli scogli. Cantato continuamente dentro le reti comunicative che alimentano desideri e stili di vita in tutto il pianeta. Voglio dire che il sud del mondo è connesso come lo siamo noi in questo spazio liscio senza frontiere, i ragazzi che migrano seguono i campionati di calcio europei, ascoltano le stesse nostre canzoni e vorrebbero avere una possibilità. Ma a differenza nostra che possiamo viaggiare liberi come nel web, i poveri incontrano la frontiera. Si scontrano con essa, ed anche se la oltrepassano questa gli rimane addosso per tutta la vita come una maledizione.
Il canto della sirena d’Occidente
Tutte le storie che racconti sono storie di vita, di persone che sbarcano in modo più o meno felice sulle coste europee. Sono vite sofferte che si incrociano con altre vite, quelle dei volontari e degli operatori che lavorano sulle navi di salvataggio. Persone che fanno parte di Ong riconosciute che da anni lavorano a favore di persone in situazioni di disagio. Oggi siamo arrivati a criminalizzare queste Ong, attacchi forti sono stati rivolti a Organizzazioni più o meno famose.
Come ti inserisci in questo discorso? Cosa ne pensi?
C’è un disegno che ho fatto in questo viaggio con la Open Arms che secondo me riesce a sintetizzare quanto sta avvenendo. Dietro un ancora ci sono due mani che si stringono in mutuo soccorso, queste due mani sono cinte da filo spinato, che per me rappresenta le procedure messe in atto dai governi per criminalizzare la solidarietà. Sotto il mare che fa da sfondo al disegno c’è la bilancia della giustizia, in mezzo alle sirene che cantano l’altrove e Nettuno che reclama vita. Quello che voglio dire con questo disegno è che quando la giustizia finisce in fondo al mare, la solidarietà diventa un crimine perché la miseria è diventata una colpa.OpenArms, la nave che è stata sequestrata per non aver riconsegnato i migranti che aveva a bordo alla Libia, è forse uno degli esempi più clamorosi della direzione che si sta prendendo.
Hai contattato i tuoi colleghi spagnoli che si trovavano sulla nave? Noi dell’associazione esprimiamo solidarietà a tutto lo staff.
Per me questo sequestro è stato un duro colpo perché mai come ora mi sono vergognato di quanto sta combinando il nostro paese. Stiamo sparando sulla croce rossa, noi che per secoli abbiamo costruito sulla solidarietà marinara parte della nostra cultura abbiamo messo sul banco degli accusati persone che invece di vendere armi, o sfruttare le risorse di altri paesi per profitto, salvano dalle onde chi scappa da guerra e miseria. Salvano chi scappa da un paese come la Libia dove i rifugiati subiscono ogni genere di offesa. Mai mi sarei sognato di dopo aver visto come queste persone sono ridotte che chi le salva fosse accusato di associazione a delinquere. Abbiamo ribaltato i significati, del resto quando essere buonisti suona come un’offesa non puoi aspettarti altro che il trionfo del male.
Sei stato più volte in Marocco e hai partecipato dal Libano ai “corridoi umanitari”, quei passaggi legali e sicuri che tanto contrastano con i “viaggi della morte” nel Mediterraneo. Cosa avete fatto in questo senso? Pensi che in futuro si possano creare corridoi umanitari solidi e in grado (forse) di eliminare completamente l’immigrazione illegale?
I corridoi umanitari sono una buona pratica, abbiamo dimostrato che è possibile come società civile organizzata fare quello che i governi non fanno. Le vie sicure per permettere a soggetti vulnerabili di trovare sicurezza sono senza dubbio una strada da perseguire. Sicuramente meno costosa dal punto di vista umano ed economico dell’attuale gestione della frontiera. Se avessero dato i soldi a noi per questo progetto invece che ad Erdogan potevamo proteggere 3 milioni di persone, solo questa cifra ci dice dell’assurdità dei tempi in cui viviamo.
Nel futuro comunque ci troveremo di fronte ad una situazione che non potrà essere gestita solo con i corridoi umanitari e su questo voglio essere molto chiaro. Dal mio punto di vista la gestione tecnica della frontiera per quanto democratica ed aperta possa essere non sarà in grado di produrre niente di significativo se non iniziamo a rispondere alle domande che queste migrazioni ci pongono. Domande che aprono un tema politico enorme. Ci troviamo di fronte ad un futuro in cui solo per il cambiamento climatico avremo centinaia di milioni di profughi al netto delle guerre che periodicamente avvengono con una media di 4 anni. Dobbiamo rifondare il concetto di protezione internazionale alla luce di questi elementi affermando che il diritto alla vita vale per ogni essere umano con la stessa forza, ciò vuol dire assicurare ai profughi ambientali ed anche a quelli economici il massimo della protezione. Se queste persone non possono essere protetti nel paese in cui vivono, o nei paesi limitrofi è importante creare corridoi umanitari e vie di accesso legali, ma questa discussione va accompagnata con un tema che nessuno vuole affrontare, il futuro dell’umanità di fronte ad un mondo che cambia velocemente. Non possiamo più rimandare la discussione sulle cause che producono la fuga di milioni di persone dalla terra dove sono nate e dove vorrebbero restare.