Da cosa nasce la crisi umanitaria nello Yemen
di Valentina Tatti Tonni
Hanna Lahoud è morto. Ucciso a Taiz, nello Yemen del sud il 21 aprile 2018. Amato da tutti, era di origini libanesi e prestava servizio nella Croce Rossa, nel programma che si occupa dei detenuti. Un agguato, dato che i colleghi che erano in macchina con lui sono rimasti illesi.
Un’altra vita spezzata che si unisce alle migliaia di morti su allarme lanciato dalle Nazioni Unite.
Nel 2012 a seguito della Primavera Araba anche la Repubblica dello Yemen attraversa un periodo di stallo istituzionale. Mentre il Nord era riuscito a ottenere l’indipendenza dall’impero ottomano, il Sud era inizialmente controllato dall’impero britannico e dai suoi protettorati. Quando gli inglesi si ritirarono venne instaurato un regime marxista, sulla spinta dei sovietici da sempre interessati al Medio Oriente: lo Yemen del sud nella penisola araba negli anni Settanta infatti strinse rapporti con l’URSS, la Cina e Cuba. Nel Nord invece venne instaurato un regime assolutista con a capo ʿAlī ʿAbd Allāh Ṣāleḥ (che verrà assassinato nel dicembre del 2017): con la caduta dell’Unione Sovietica, i due stati si uniranno per formare lo Yemen moderno. Tuttavia nel 1994 già ci furono tentativi di secessione, raggiunti, ma non approvati dalla comunità internazionale. Il potere di Ṣāleḥ è stato passato a ʿAbd Rabbih Manṣūr Hādī, anche se fu ben presto destituito nel colpo di stato del 2015.
E così arriviamo ai giorni nostri. Nel 2015 il gruppo armato sciita zaydita Huthi, pur essendo una minoranza, riesce a far dimettere gli alti funzionari del governo tra cui appunto il Presidente Hādī e il primo ministro. Il Paese viene affidato ad un “governo tecnico”, come lo chiameremo noi, vicino all’ex presidente e questa decisione fa sorgere sempre più scontento tra la popolazione, tanto più che al Sud quattro amministrazione regionali decidono di voler prendere ordini dal governo centrale. E’ il caos. Gli Huthi dopo aver preso il controllo della capitale Sana’a costringono Hādī alla fuga. Lui si va a rifugiare al Sud nella città di Aden che proclama come capitale transitoria.
La tensione sale e il 25 marzo 2015 gli Huthi, alleati con forze militari fedeli a Ṣāleḥ e sostenuti dall’Iran, lanciano un’offensiva contro Aden. Nel frattempo l’ex presidente non è rimasto fermo aspettando la cattura ma si è rifugiato al confine, in Arabia Saudita. I sauditi prendono le sue parti e il giorno dopo attaccano con aerei militari gli Huthi, attacchi che secondo l’ONU avrebbero causato più vittime di quante ce ne fossero state in partenza, ricevendo aiuti militari da Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia. Proprio il nostro Paese di recente, il 18 aprile scorso, sarebbe sotto accusa per gli ordigni lanciati nello Yemen: la Rete Italiana per il Disarmo insieme al Centro Europeo per diritti umani e costituzionali Ecchr avrebbe affiancato l’associazione yemenita Mwatana presentando denuncia alla Procura di Roma La richiesta è che venga eseguita un’indagine sulle responsabilità penali dell’Autorità Italiana che autorizza l’esportazione degli armamenti, nonché un’indagine sull’operato dell’azienda di proprietà tedesca Rwm Italia SpA che avrebbe prodotto la bomba.
Nello scorrere della guerra civile, la popolazione è in fuga ed è così che si è creato il lungo cordone, gente scampata alla morte diventa profugo di una nuova tragedia umanitaria. Il conflitto iniziato per l’egemonia e la conquista del territorio, ha invece reso povero lo Stato. Lo Yemen è oggi come una stele di cemento forellato, ma la guerra non accenna a finire nonostante i moniti delle Nazioni Unite, i salvataggi delle Ong sul campo, i numeri delle vittime in crescita e quel missile che lo Yemen ha lanciato sulla capitale saudita Riad e che ha fatto presagire per molti l’inizio di un conflitto ancora più pericoloso: che sia cioè solo un capro espiatorio punitivo contro l’Iran.