“Imprese e diritti umani”. Fast fashion, luxury fashion e i lavoratori invisibili in Puglia
di Cecilia Grillo
“Io sono pugliese e la Puglia non è il Bangladesh. Citano fonti sconosciute e dicono anche che in Italia non abbiamo una legge sul salario minimo e questo è grave. Le nostre sono aziende serie, se i subcontratti hanno fatto delle stupidaggini questo va perseguito, ma condividiamo tutti lo stesso contratto per la tutela dei lavoratori. Se poi volevano demonizzare il lavoro domestico trovo che sia sbagliato, ha un senso purché sia ben pagato.”
Con queste parole Carlo Capasa, Presidente della Camera Nazionale della Moda, risponde all’inchiesta sul Made in Italy, pubblicata dal New York Times, non a caso proprio in occasione della Milano Fashion Week (che si tiene ogni settembre), organizzata dalla Camera Nazionale della Moda Italiana.
Per valutare la serietà delle accuse del New York Times, proviamo a capire meglio cosa si intende per fast fashion, luxury fashion e qual’è il loro impatto sul settore della moda italiano.
Il concetto di fast fashion, di cui purtroppo non si sente frequentemente parlare, affonda le sue radici nello sviluppo del fenomeno della cosiddetta “Quick Response”, che si è evoluto dalla fine degli anni ’70 e durante tutto il 1980, quando i fornitori americani di tessuti e abbigliamento hanno iniziato a subire forti pressioni competitive dall’Estremo Oriente, che esportava prodotti a costi notevolmente inferiori.
Secondo alcuni filoni dottrinali per fast fashion si deve intendere il comportamento delle aziende che cercano di soddisfare la domanda dei clienti fornendo la giusta quantità, varietà e qualità al momento giusto, nel posto giusto, al giusto prezzo. Da quando tuttavia un piccolo numero di organizzazioni di vendita al dettaglio ha adottato e implementato con successo il principio del fast fashion, il settore l’ha percepito come un vantaggio competitivo, implementando tecniche di vendita che riuscissero a stare al passo con le richieste dei mercati internazionali.
Esempi di marchi cosiddetti fast fashion sono rappresentati da H&M, Zara, Topshop, Mango e molti altri, che, con i propri prezzi ed offerte, sono stati in grado di attirare l’attenzione del consumatore tentato dalla moda, allo stesso tempo interpretando le tendenze delle passerelle con un time-to-market cosiddetto veloce.
Il fast fashion è indice di una produzione veloce, di capi di abbigliamento sempre di moda venduti a prezzi economici, che sono caratterizzati da un ricambio continuo e da qualità scadente; ma chi paga le conseguenze per il mantenimento di prezzi così bassi e di tale ricambio costante? La manodopera ovviamente.
Il Fast fashion, oltre ad essere causa del sempre maggiore sfruttamento dei lavoratori, contribuisce notevolmente all’inquinamento di mari e oceani laddove i capi siano stati realizzati con fibre sintetiche della plastica, oltre all’inquinamento chimico prodotto dalle fabbriche, quello dei pesticidi nei campi di cotone, lo spreco di acqua ed energia, malattie e dermatiti della pelle che affettano i lavoratori di tessuti sintetici o colorati.
In riferimento al fast fashion queste le parole di Kirsten Brodde, che lotta per la campagna di Greenpeace “Detox my Fashion”: È difficile resistere al buon affare, ma fast fashion significa che noi consumiamo e gettiamo i vestiti più velocemente di quanto il pianeta possa sopportare.
Elizabeth Paton e Milena Lazazzera, le due giornaliste che hanno condotto l’inchiesta per il New York Times, sottolineano come proprio il lavoro a domicilio, praticato frequentemente nelle periferie pugliesi, in casa o in laboratori, rappresenti una delle basi fondanti del fenomeno del fast fashion.
Costruite sulla miriade di piccole e medie imprese manifatturiere orientate all’esportazione, che costituiscono la spina dorsale italiana, le fondamenta secolari della leggenda del “Made in Italy” si sono scosse negli ultimi anni sotto il peso della burocrazia, aumento dei costi e della disoccupazione, portando con sé una diminuzione dei salari e un aumento del numero di lavoratori irregolari sul suolo italiano.
Tuttavia i lavori tessili che vengono svolti a domicilio ad alta intensità di manodopera o che richiedono manodopera specializzata sono sempre esistiti in Italia e sono solo stati incrementati, ma non creati, dallo sviluppo del fenomeno del fast fashion. Secondo l’opinione prevalente la mancanza di un salario minimo nazionale stabilito dal governo ha reso più semplice per molti lavoratori che svolgono la propria mansione a domicilio essere pagati in nero e secondo standard molto più bassi rispetto ai minimi legali.
Secondo i dati riportati dall’Istat per l’anno 2017, 7.216 lavoratori a domicilio, di cui 3.647 operanti nel settore tessile, sono stati impiegati in Italia con contratti irregolari.
Una delle ragioni per cui le retribuzioni lavorative per la produzione di indumenti e tessuti in questo tratto dell’Italia meridionale sono rimaste così basse è rappresentato dalla delocalizzazione, negli ultimi venti anni, della produzione tessile in Asia e nell’Europa dell’Est, che ha intensificato la concorrenza locale e che ha “costretto” i proprietari di fabbriche e industrie tessili a ridurre notevolmente i prezzi per poter essere competitivi.
Ma non sono solo i marchi di fast fashion, secondo quanto riportato dall’inchiesta del NYT, a sfruttare i lavoratori, anche i colossi della moda, le più famose griffe, non rispettano quelli che sono gli standard minimi di tutela della propria manodopera, le condizioni e gli orari lavorativi previsti per legge, i salari corrispondenti ai minimi legali, etc.
Ed è qui che ritorniamo alla Puglia, dove alcune fra le più famose marche italiane sfruttano i lavoratori, pagando un euro all’ora sarte, prive di garanzie o assicurazioni, che tessono cappotti e abiti, destinati ad essere poi rivenduti sul mercato a prezzi fra i 1.000 e i 2.000 euro al capo, secondo quanto riportato dal NYT a seguito di interviste fatte a una sessantina di donne pugliesi.
Ad oggi anche i più famosi marchi e griffe, il cosiddetto luxury fashion, sottopagano e non rispettano i diritti dei propri lavoratori, infatti anche se negli ultimi anni alcuni fra questi hanno riportato la propria produzione tessile in Puglia, la gestione del mercato dei lavoratori è ancora saldamente nelle mani dei fornitori e degli industriali locali, i quali preferiscono utilizzare subfornitori o lavoratori a domicilio sottopagati.
Il lavoro al nero che le sarte pugliesi, e non solo, svolgono nei propri appartamenti o studi vengono infatti anche affidati in outsourcing dallo stabilimento locale che produce anche articoli di abbigliamento esterno per alcuni dei più noti marchi di lusso, tra cui Louis Vuitton, MaxMara e Fendi.
Le storie delle sarte e delle operaie del meridione italiano parlano di donne costrette a ricorrere a turni straordinari, a miseri sussidi statali, a lavori secondari per poter arrivare a fine mese e per poter mantenere i propri figli, vincolate ad una qualità di vita assolutamente al di sotto della media, a impatti negativi sulla propria salute, alla difficile possibilità di accesso al sistema sanitario nazionale, alla cultura e all’istruzione secondaria.
Secondo quanto dichiarato dalla Lucchetti, portavoce dell’importante movimento di denuncia “Clean Clothes Campaign”, la Campagna Abiti Puliti, i cui membri da anni si battono per sensibilizzare e coinvolgere i consumatori riguardo alla tematica dello sfruttamento della manodopera del settore tessile: “I marchi commissionano i primi appaltatori a capo della catena di fornitura, che poi commissionano ai subfornitori, che a loro volta spostano parte della produzione in fabbriche più piccole sotto la pressione di tempi di consegna ridotti e prezzi ridotti. Ciò rende molto difficile che ci sia sufficiente trasparenza o responsabilità. Sappiamo che il lavoro a casa esiste. Ma è così nascosto che ci saranno marchi che non hanno idea che gli ordini siano fatti da lavoratori irregolari al di fuori delle fabbriche contrattate […] e alcune aziende e griffe devono sapere che potrebbero essere complici”.
Le prime battaglie per la tutela dei diritti dei lavoratori dovrebbero quindi partire proprio da quelle griffe più famose, che potrebbero ad esempio richiedere ai fornitori con cui collaborano di firmare un Sustainability Commitment, di pagare ai propri dipendenti salari legali minimi, di riconoscere e compensare le ore di straordinario, di controllare che rientrino nei limiti legali e che rispettino la legge nazionale, e che dovrebbero porre termine ai rapporti commerciali nel caso in cui i fornitori non apportino i miglioramenti necessari e non rispondano ai requisiti richiesti.