Al Fespaco vince il cinema africano
di Giuseppe Acconcia
Direttamente da Ouagadougou
«È come sempre un festival rivoluzionario», è stato il commento dell’attore Al Assane Sy in occasione della chiusura della 26esima edizione del Festival di cinema pan-africano (Fespaco) di Ouagadougou. Se tutte le attese per i cinquant’anni (1969-2019) dall’avvio di una delle manifestazioni storiche e più significative di cinematografia africana facevano pensare ad una vittoria del film “Desrances” della regista burkinabé, Apolline Traore, accolto con grande calore dal pubblico del Cine Burkina e nella magnifica sala all’aperto dell’Istituto francese, a vincere l’Etalon d’oro di Yennenga è stato il film “The mercy of the jungle” di Joel Karekezi. «Un film di guerra e non sulla guerra» ci ha spiegato il critico senegalese, Baba Diop. Nel pieno del conflitto in Rwanda tra tutsi e hutu, il sergente Xavier, eroe di guerra ruandese, e il giovane soldato semplice Faustin si trovano in territorio nemico nel pieno della giungla. Soli e senza risorse, attraversando l’immensa e ostile giungla congolese, sono costretti a sfuggire ad agguati, alla malaria e alla violenza dei loro stessi commilitoni. Uno sguardo lucido e disincantato su un conflitto le cui ferite sono ancora aperte, che è valso anche il premio come migliore attore al protagonista, Marc Zinga.
Se l’edizione del 2017 aveva visto la vittoria del cineasta senegalese, Alain Gomis con Felicité, poi accolto in patria come un «eroe», è stato il cinema nord-africano ad avere ampio spazio in questa edizione, ricca di pubblico e con misure di sicurezza alle stelle del Fespaco, con ben due film premiati tra i migliori tre: l’egiziano Karma di Khaled Youssef, e il tunisino Fatwa di Ben Mohmound. L’allievo di Youssef Chahine in Karma racconta la storia di due uomini, entrambi interpretati da Amr Saad, che vivono uno, ricco imprenditore, tra gli agi più sfrenati nei quartieri satellite del Cairo e l’altro, disoccupato nella povertà più assoluta. Le vite dei due si incrociano continuamente, così come i loro modi diversi di vivere, le loro religioni diverse (il più ricco è musulmano, il più povero è cristiano) prima nei sogni e poi nella realtà, al punto che uno arriva a vivere la vita dell’altro in un continuo meccanismo dialettico che smaschera i pregi e i difetti della ricchezza e della povertà e che si risolve nella fine delle persecuzioni per il ricco agiato, dopo l’ingresso in una tomba abbandonata nel cuore della Cairo antica che lo riporta alla realtà e lo scagiona da ogni sua colpa. In Fatwa, il regista tunisino Ben Mohmound racconta invece del percorso di radicalizzazione del figlio del protagonista, Ahmed Hafien. Dopo la sua morte, il padre cerca di capire cosa sia accaduto a suo figlio che da mesi aveva perso di vista dopo il suo trasferimento a Parigi. E così scopre che lentamente aveva abbracciato la fede salafita pur tentando in ogni modo di salvare la madre, parlamentare interpretata da Ghalia Benali, dalla condanna a morte, decisa da islamisti radicali suoi amici, a causa dei contenuti del suo ultimo libro sulla violazione dei diritti umani nel paese. Infine, secondo la giuria del festival, il migliore cortometraggio è stato Black Mamba del tunisino, Amel Guellaty: la storia di una giovane, Sarra Hannachi, che avrebbe voluto vivere la sua passione per la box nonostante i limiti imposti dalla società.