Dall’Albania in Italia, ieri come oggi
Associazione Per i Diritti umani ha intervistato Eltjon Bida, autore del libro autobiografico “C’era una volta un clandestino” e lo ringrazia per la disponibilità. Le sue parole possono creare un dibattito interessante.
A cura di Alessandra Montesanto
A che età ha affrontato il viaggio e chi è rimasto della sua famiglia in Albania?
Avevo 17 anni. Un’età giovane, sì, lo so. Ma dovevo partire. In Albania non avevo un futuro. Ero disperato. In quegli anni, anche chi era laureato, se era fortunato, andava a pascolare le mucche. C’era tanta povertà, non c’era lavoro, non c’erano soldi e i disordini erano continui.
Poi dovevo guarire da un problema renale. La sanità in Albania era un disastro. Qui in Italia, invece, c’erano dei macchinari in grado di distruggere un calcolo renale con il laser, senza nessun taglio sulla pancia. Perciò, sono partito con la speranza di guarire, per lavorare ed avere una vita migliore.
Sono partito da solo. Mamma, papà, mio fratello e le sorelle sono rimasti nel mio Paese.
Ci racconta la preparazione e cosa è stato fatto prima della partenza?
Come racconto anche nel libro, all’inizio, avevo tentato di partire con la nave. Il contrabbandiere con cui eravamo in contatto, mi diede un passaporto e permesso di soggiorno falsi, e un foglio con delle frasi in italiano da imparare. Studiandole, avrei potuto rispondere alle domande che mi avrebbe fatto la Polizia di Frontiera. Papà pagò per me un milione e duecentomila lire. Per fare quei soldi avevamo venduto quasi tutto quello che avevamo: terra e bestiame. A Brindisi sono stato individuato e rimpatriato. In teoria, qualcuno aveva fatto la spia. Appena rimesso piede a Valona dissi a mio padre che non volevo ritornare più nel nostro paesino, ma avrei tentato di raggiungere l’Italia con il gommone.
Lui, sapendo che se fossi rimasto in Albania avrei rischiato di fare la fame, non mi disse di no. Ci recammo dove c’erano gli scafisti. Parlammo con il capo banda, pagammo un milione di vecchie lire e alla sera, quando era buio totale, partii. Eravamo in 26, su un gommone lungo 5 metri lungo e largo 2.
Cosa significa essere definito un “clandestino” (termine scorretto, che però molti ancora utilizzano)?
Con quel termine ti senti un po’ messo da parte, ti senti escluso, una persona non voluta, sei come un cane abbandonato. Però sa, uno non deve guardare questi termini. Uno deve andare avanti a testa alta per la sua strada.
Qual è stata l’accoglienza, una volta arrivato in Italia?
Siamo scesi dal gommone tra Otranto e Lecce. Lo scafista ci lasciò con due italiani i quali chiesero altre 100 mila lire a persona per portarci ad un magazzino abbandonato, cinque chilometri distante. La mattina dopo, arrivò un tassista il quale ci chiese ulteriori soldi, per portarci alla stazione di Lecce. Da lì sono andato a Pescara dove sono stato accolto dal “fidanzato” italiano di mia cugina! L’avevo conosciuto quando era stato in Albania per conoscere la cugina. Dico “fidanzato” tra virgolette, perché quando era venuto a prendermi alla stazione di Pescara, lui ormai era un ex, aveva rotto i rapporti con mia cugina, ma comunque non mi ha abbandonato. Mi ha accolto nella sua famiglia, dove sono stato voluto bene.Perché? Perché avevano capito che le mie intenzioni erano: lavorare, lavorare, lavorare, comportandomi bene.
Quali sono le similitudini o le differenze con le condizioni dei migranti in Italia tra ieri e oggi?
Allora, qui potrei andare avanti a lungo ma cercherò di dirlo in poche parole. Le similitudini sono che spesso, quando una persona rischia la propria vita, attraversando il mare con un gommone, è perché al suo Paese è disperata e non ha niente da perdere.
Inoltre, negli anni Novanta, c’era più lavoro e ora ci sono più immigrati che in Passato.
Quali norme dovrebbero essere inserite o modificate, in Italia, per garantire i diritti fondamentali agli immigrati?
Le norme ci sono, ma non vengono rispettate. Ad esempio, nel mondo del lavoro, l’immigrato deve avere più o meno gli stessi diritti di un italiano. Dico più o meno perché, finché l’immigrato non conosce un mestiere e la lingua del posto, l’italiano può venire trattato meglio, ma, una volta che ha la padronanza su tutto, l’immigrato deve avere il diritto d’essere trattato alla pari. Deve essere accolto nel giusto modo perché secondo me l’accoglienza è anche educazione; bisogna garantire un lavoro e condizioni di vita dignitose, pretendendo nel contempo la conoscenza e il rispetto delle leggi italiane. Come dicevo prima, un maggior controllo sulle realtà più delicate. L’immigrato, regolare o meno, è spesso un soggetto debole e quindi più a rischio di essere coinvolto nelle attività illegali. Dunque, deve essere protetto. Nello stesso tempo deve cercare di dare il massimo per integrarsi nel Paese che lo ospita.
Come definisce la sua vita, oggi?
Felice! Anzi, molto felice! Sto vivendo in un sogno. Sto provando a fare lo scrittore! E per ora il libro sta avendo un grande successo. Sono stato intervistato da: Radio inBlu, Radio 105, Radio 24, Rai 3, MilanoToday, per nominarne alcuni. E questi giorni avrò altre interviste importanti. Presto sarà pronto anche il secondo libro. Non mi sarei mai immaginato di arrivare così in alto! Eppure…
Ho una bellissima famiglia. Due bambini stupendi e una moglie straordinaria. La migliore al mondo. È inglese. È sempre presente sia come moglie sia come mamma. Siamo circondati da amici meravigliosi. I bambini sono nati a Milano, a scuola vanno bene e hanno amicizie di tante nazionalità. I migliori amici del figlio più grande ad esempio, sono: due italiani, un rumeno, un filippino ed uno srilanchese. Io questa cosa lo trovo fantastica. Ed oltre all’italiano, i miei figli parlano inglese e albanese. Ci consideriamo una delle famiglie più felici al mondo.