“Imprese e diritti umani”. Human Rights Due Diligence
di Cecilia Grillo
Nel 2011 il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità i Principi Guida dell’Onu in tema di imprese e diritti umani (UN Guidelines Principles on business and human rights o UNGPs), evidenziando sia il dovere degli Stati di proteggere i diritti umani sia la responsabilità delle imprese di rispettarli.
Il Principio n. 15, fra gli altri, si sofferma sull’analisi degli strumenti che possono essere attuati da parte delle società per far fronte alla “responsabilità” di rispettare i diritti umani, fra i quali vengono indicati l’adozione di specifiche politiche aziendali, l’attuazione di un processo di Human Rights Due Diligence (HRDD) e la previsione di meccanismi che garantiscano l’accesso ai rimedi per le vittime.
Dalla lettura degli UNGPs risulta evidente quindi che le imprese siano incoraggiate a promuovere processi di “due diligence sui diritti umani” – come altresì previsto da standard internazionali quali le linee guida OCSE, il Global Compact, la Global Reporting Initiative, etc. – volti a identificare, prevenire e mitigare gli impatti negativi sui diritti umani provocati dalle loro attività o da quelle connesse ai loro rapporti commerciali, che spesso prevedono il coinvolgimento di filiali, subappaltatori e fornitori.
Ma cosa significa esattamente due diligence sui diritti umani? Si tratta di un processo che consiste nella valutazione, da parte delle imprese, degli impatti effettivi e potenziali delle attività produttive da loro condotte sui diritti umani, nell’attuazione di politiche aziendali che tengano conto di tali valutazioni, nel monitoraggio delle misure adottate e nell’implementazione di meccanismi di rimedio a favore delle vittime, prevedendo il coinvolgimento sia dell’intera catena di produzione sia delle operazioni poste in essere non solo dalla società, ma anche dalle sue controllate e collegate.
Il principio operativo di due diligence è considerato quale noto strumento di gestione del rischio, caratterizzato dall’insieme di passi pratici utili ai fini dell’identificazione e mitigazione dei rischi e degli impatti provocati dai comportamenti aziendali sui diritti umani e sull’ambiente e volto a promuovere un comportamento commerciale responsabile.
Il Principio Guida n. 17 specifica che “la due diligence in materia di diritti umani: (i) ha ad oggetto gli impatti negativi sui diritti umani che l’impresa può causare o contribuire a causare attraverso le proprie attività o che possono essere direttamente collegati alle sue operazioni, ai suoi prodotti o servizi attraverso le proprie relazioni commerciali; (ii) varierà in termini di complessità in base alla dimensione dell’impresa, al rischio di gravi impatti sui diritti umani, alla natura e al contesto delle sue operazioni; (iii) dovrebbe essere esercitata in modo continuativo poiché i rischi per i diritti umani possono cambiare nel tempo con l’evolvere dell’attività e del contesto operativo dell’impresa”.
Nonostante gli UNGPs non rappresentino uno strumento giuridicamente vincolante e sia la cosiddetta “corporate responsibility to respect human rights” sia la due diligence sui diritti umani consistano in mere raccomandazioni indirizzate alle imprese, alcuni elementi tipici quali il reporting, la valutazione degli impatti, etc., sono già da tempo presenti all’interno di apparati giuridici nazionali e internazionali.
Infatti, previsioni normative volte ad imporre alle aziende di attuare processi di due diligence sui diritti umani avrebbero molteplici vantaggi, dal miglioramento della valutazione e della gestione dei rischi aziendali, all’aiuto alle autorità statali nell’adempimento degli obblighi inerenti alla protezione dei diritti umani, al miglioramento dell’accesso alla giustizia per le vittime di abusi aziendali, sia in Europa che a livello internazionale.
Spinti da tali vantaggi e dalla pressione della società civile alcuni paesi hanno adottato o sono in procinto di adottare legislazioni specifiche in materia di due diligence sui diritti umani, è infatti interesse dei Governi l’assunzione di normative locali che rendano obbligatoria, per le imprese nazionali, la predisposizione di processi di human rights due diligence e la conseguente divulgazione dei risultati ottenuti.
Un esempio di tale tendenza è rappresentato dalla risoluzione n. 26/9 del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, volta ad istituire un gruppo di lavoro (il gruppo di lavoro intergovernativo aperto sulle imprese transnazionali e altre imprese commerciali in materia di rispetto dei diritti umani, noto anche come IGWG) al fine di elaborare uno “strumento internazionale giuridicamente vincolante per regolamentare, nel diritto internazionale in materia di diritti umani, le attività delle società transnazionali e di altre imprese commerciali” e volto altresì a imporre agli Stati l’adozione di legislazioni specifiche in materia di due diligence sui diritti umani.
Esempi della tendenza europea alla regolamentazione della due diligence aziendale sono rappresentati dalla direttiva sulla comunicazione delle informazioni di carattere non finanziario (EU Directive 2014/95), recepita in Italia con il D. Lgs. 254/2016, che obbliga le grandi imprese con oltre 500 dipendenti e un fatturato superiore ai 40 milioni di euro (o, in alternativa, un attivo di stato patrimoniale superiore ai 20 milioni) a redigere a partire dal 2018 e con riferimento all’esercizio 2017 una “Dichiarazione non finanziaria” , consistente in un vero proprio Bilancio di Sostenibilità da allegare al tradizionale bilancio d’esercizio, che deve rendicontare l’operato dell’impresa sul fronte ambientale e sociale, della gestione delle proprie risorse umane, del rispetto de diritti umani e della lotta ai fenomeni di corruzione.
Pensando al caso Italia, si può fare riferimento al D.Lgs. 231/2001 che, prevedendo un processo di due diligence relativo sia a specifiche violazioni di diritti umani sia a impatti ambientali di ingente entità, può essere considerato un esempio pionieristico di legislazione obbligatoria in materia di due diligence sui diritti umani.
A livello nazionale, possiamo fare riferimento alla clausola sulla trasparenza delle catene di approvvigionamento (Transparency in Supply Chains Clause) prevista dalla Legge sulla schiavitù in epoca moderna – Modern Slavery Act– del 2015, in forza della quale le imprese devono rendere note le azioni e le misure intraprese per contrastare l’uso del lavoro forzato e il traffico di esseri umani all’interno della supply chain; e ancora, al progetto di legge “devoir du vigilance”, recentemente adottato dall’Assemblea nazionale francese, che impone alle aziende di progettare e mettere in atto un “piano di vigilanza” per prevenire l’impatto negativo delle loro attività sui diritti umani, sia in patria che all’estero.
Infine, a livello extra-europeo, anche se l’Unione Europea e i suoi Stati membri non hanno ancora stabilito l’obbligo per le aziende europee di prevenire o rispondere agli impatti negativi sui diritti umani provocati dalle loro operazioni al di fuori del territorio comunitario, alcuni processi in corso rappresentano un importante passo verso una maggiore responsabilizzazione aziendale volta al soddisfacimento, da parte delle imprese commerciali, degli standard legislativi internazionali inerenti alla tutela dei diritti umani.
Si pensi, ad esempio, al Regolamento 2017/821, che sarà in vigore dal 2021 e che stabilisce specifici obblighi in materia di due diligenze nella catena di approvvigionamento per gli importatori europei di minerali e di oro, provenienti da zone di conflitto o ad alto rischio.
Tuttavia, nonostante la tendenza comunitaria volta alla regolamentazione della due diligence aziendale, un recente studio della Commissione europea “Study on due diligence requirements through the supply chain” ha rilevato che, mentre gli UN Guiding Principles on Business and Human Rights sono sempre maggiormente introdotti o proposti negli standard legali degli Stati membri, all’interno dell’Unione Europea in realtà solo un’impresa su tre attualmente effettua una due diligence che tiene conto degli impatti sociali e sull’ambiente causati dalle operazioni aziendali.
Il report mostra un forte interesse, espresso da parte della maggioranza degli Stati europei, verso l’instaurazione di processi regolamentati e obbligatori di due diligence sui diritti umani, come parte consistente delle riforme di corporate governance. Le attuali misure in essere infatti, volontarie e non vincolanti, non sono state in grado di modificare significativamente la gestione degli impatti di impresa da un punto di vista sociale, ambientale e di amministrazione aziendale, e a fornire un rimedio efficace.
A tal riguardo, Didier Reynders, Commissario europeo della Giustizia, ha specificato che “secondo le imprese, una normativa UE in quest’ambito garantirebbe la certezza del diritto e regole armonizzate sul dovere delle imprese di rispettare le persone e il pianeta. Poiché la neutralità climatica è una delle principali priorità di questa Commissione, farò in modo che i risultati di questo importante studio siano tenuti in considerazione nell’elaborazione delle iniziative future”.
I Principi Guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani hanno contribuito alla formazione ed evoluzione del processo di due diligence sui diritti umani volto a prevenire e affrontare gli abusi di questi ultimi, tuttavia sono notevoli i limiti dell’inquadramento volontario di tale processo, essendo necessaria e sempre maggiormente richiesta una serie più completa di strumenti legali in grado di rappresentare il carattere transfrontaliero delle relazioni d’affari che caratterizzano l’attività dell’impresa moderna.
Siamo ora in una fase cruciale per l’efficacia dei Principi Guida, nella quale gli Stati devono impegnarsi a stabilire e adottare misure di protezione contro le forme di abuso dei diritti umani, attraverso un’efficace e regolamentata legislazione. In quest’ottica, il ruolo degli Stati nell’applicazione di un processo di due diligence sui diritti umani risulta essere essenziale.
In conclusione, nonostante il processo di due diligence sui diritti umani sia diventato uno strumento sempre maggiormente accreditato, è riconosciuto che, finché sarà lasciato alla discrezione delle imprese, i suoi benefici rispetto alla protezione dei diritti umani e alla prevenzione degli abusi rimarranno purtroppo limitati, la raccomandazione è che in futuro tale processo riesca ad evolvere in veri e propri obblighi di diritto internazionale consuetudinario o convenzionale.