Entriamo in un campo rom. La conoscenza per abbattere i pregiudizi
Associazione Per i Diritti umani ha intervistato il fotografo Mauro La Martina (le foto nel testo sono sue) e lo ringrazia per aver condiviso con noi il lavoro che svolge con i rom di Torino.
di Alessandra Montesanto
Da dove nasce il suo interesse per il popolo rom?
Sono per natura molto curioso, mi piace conoscere ed approfondire. Sono anche una persona pronta ad aiutare chi si trova in difficoltà.
Il popolo Rom è conosciuto spesso solo attraverso stereotipi. Siamo convinti che siano tutti ladri, che tutte le donne chiedano l’elemosina e mille altre cose.
Spesso li chiamiamo zingari e pensiamo che siano trasandati, infidi, ladri, senza cultura. Ma generalizzare è sbagliato: nell’Est europeo, e in molti casi anche in Italia, i Rom vivono in normali case, lavorano, studiano e la convivenza coi gagè (è cosi che viene chiamato chi non è rom) è tranquilla. Il campo è quindi un’eccezione, una situazione anomala e magari superabile attraverso iniziative che favoriscono l’integrazione.
Come ha lavorato per realizzare il suo reportage (titolo?): quando è stato realizzato, se si è preparato prima di recarsi nel campo, se ha parlato con le istituzioni e poi con le persone rom, etc.
#camporom è il titolo (forse provvisorio!?) che ha questo mio progetto/reportage fotografico. Un racconto in 100 fotografie. Fotografie di persone, momenti di vita quotidiana, vita vissuta dai Rom di Torino.
Sto ultimando in questo periodo, di scattare le ultime fotografie, poi lavorerò alla fase di post-produzione. Spero per la fine dell’anno di riuscire a realizzarne un libro.
Nasce tutto insieme ad alcuni amici e volontari che mi coinvolgono nell’estate dello scorso anno. Siamo un piccolo gruppo di persone provenienti da ogni parte del mondo (Italia, Serbia, Albania, Marocco, India, Ghana, Giappone!) Grazie al supporto di Slow Food International abbiamo avuto la possibilità di partecipare ad un progetto che ha come obbiettivo quello del superamento dei campi. Attraverso percorsi di formazione, integrazione sul territorio, stage si vuole/voleva (visto che poi le cose sono cambiate con lo sgombero e l’abbattimento del campo di via Germagnano!) arrivare a creare nuove opportunità soprattutto per le nuove generazioni rom.
Il progetto di demolizione del campo era già nell’aria da parecchio tempo. Quando Siamo arrivati ci siamo interfacciati con una realtà ancora più difficile di quanto pensavamo. Il passaggio della polizia municipale era ancora ben visibile, qualche giorno prima hanno iniziato a demolire alcune baracche. Questo ha distrutto in primis il loro morale, la loro fiducia, la loro speranza, come se non bastasse la miseria nella quale già vivevano.
Siamo tutti convinti che non si possa vivere in quelle condizioni e che la vita del campo così precaria non può che essere un danno alle piccole generazioni che crescono sognando un mondo diverso, un mondo spesso chiuso con un lucchetto. Un mondo che non li vuole far entrare.
Ecco quindi che mi sono sentito in dovere di documentare la vita nel campo. Chi sono e cosa vogliono questi ragazzi che vivono emarginati dalla società.
Vuole raccontarci come è stato accolto dalle persone del campo di Torino che ha poi ritratto?
Mi sono ritrovato un sabato pomeriggio nel campo di Via Germagnano a Torino come volontario con altre persone per portare sostegno e cibo.
Uscivamo dal primo lockdown e ti lascio immaginare come poteva essere stato difficile superare quel periodo per chi vive in situazioni già particolarmente difficili.
Per diverse settimane, grazie soprattutto al sostegno economico di Slow Food, siamo riusciti a portare al campo beni di prima necessità a quante più famiglie possibile, soprattutto a quelle con bambini piccoli o anziani malati.
Era giù nell’aria da un po’ la possibilità dello sgombero del campo (nonostante fossimo in piena emergenza sanitaria!) e la demolizione di alcune baracche da parte delle forze dell’ordine era già iniziata. Durante le periodiche visite, le baracche trovate vuote venivano prima sequestrate e poi abbattute. Magari l’inquilino era uscito per lavorare o era ricoverato in ospedale. Al ritorno la baracca non c’era più.
Via Germagnano era divisa su più campi. Si arrivava al campo principale (circa 100 baracche) con macchine e furgoni carichi di cibo e vestiti. Un anziano coordinatore del campo cercava di gestire la distribuzione dei prodotti in modo che tutti potessero ricevere quanto avevamo portato.
Durante le prime due visite, la macchina fotografica non era molto gradita. Documentavo cosa succedeva senza invadere troppo il loro territorio, rimanevo in disparte e smettevo di fotografare appena capivo di infastidire. Molti alla vista dell’obbiettivo si nascondevano o non volevano essere fotografati. I bambini invece diventavano subito protagonisti di fronte alla fotocamera
In che modo vivono?
Le aree del campo sono divise per famiglia. I vicini di casa sono i genitori o i figli. Ognuno vive nella propria baracca costruita con quello che si è riusciti a trovare. Si vedono pareti fatte di vecchi cartelloni pubblicitari, tetti di lamiera, pavimenti di bancali di legno. Nel campo non arriva acqua e l’energia elettrica e fornita da un generatore acceso solo all’occorrenza per ricaricare i cellulari o per accendere qualche lampadina la sera.
Le donne si occupano del cibo, della pulizia, dei bambini. I più grandi si occupano dei più piccoli. Gli uomini (quelli che possono) si guadagnano la giornata con lavori occasionali.
I bambini vanno a scuola. Ho conosciuto una mamma che ha voluto mostrarci orgogliosa i quaderni ordinati e con dei bei voti dei suoi figli. I ragazzi rom fanno esattamente le stesse cose che farebbe qualsiasi altro ragazzo del mondo “civile”, amici, uscire, divertirsi…
Qual è la sua opinione in merito ai numerosi sgomberi dei campi che vengono effettuati in Italia?
Gli sgomberi senza soluzioni alternative non risolvono alcun problema, ma lo spostano soltanto più in là.
Servirebbero invece interventi di welfare veri, efficaci, non definiti su base etnica.
Serve la regolarizzazione delle persone che ancora, dopo generazioni, vivono senza documenti e l’assegnazione di case popolari a tutti gli aventi diritto. Serve volontà da parte delle istituzioni per favorire l’integrazione. Spesso invece vediamo solo le promesse durante le campagne elettorali
Infine: un ricordo…
Siamo stati invitati a mangiare con loro durante uno dei nostri pomeriggi di visita. In pochi minuti è stata allestita l’area cucina, le donne più giovani pronte a cucinare un piatto tipico della loro tradizione, le altre intente ad apparecchiare la tavola tirando fuori dalle loro baracche i servizi di posate e piatti che probabilmente utilizzavano solo per eventi veramente speciali. Ci siamo sentiti parte integrante della loro comunità. Avevano deciso di dividere il poco che avevano a disposizione con noi. Eravamo diventati gli ospiti d’onore di una festa improvvisata. Un vecchio detto arabo dice “non conosci veramente una persona fino a quando non ci mangi insieme!”.