Iran, tempi duri per società civile e difensori dei diritti umani
di Giuseppe Acconcia
A pochi mesi dall’insediamento del presidente conservatore Ebrahim Raisi e con i colloqui per il ritorno all’accordo sul nucleare ancora incerti, gli iraniani sono colpiti come non mai dalla crisi economica e sono stanchi delle restrizioni alle libertà civili. Se i trasferimenti delle ingenti risorse che riempiono le casse iraniane grazie al ricco mercato petrolifero vanno sempre più diretti nel mercato privato e nel settore para-statale, i settori agricolo e industriale risentono come non mai della stagnazione economica. Crisi che con un’inflazione al 47% e gli effetti della guerra in Ucraina ha ripercussioni sempre più significative sugli iraniani, costretti già a fronteggiare le conseguenze nefaste delle sanzioni internazionali, volute dalla comunità internazionale e rafforzate dal pugno duro dell’amministrazione Trump negli Stati Uniti.
Le restrizioni contro i difensori dei diritti umani
La lista degli attivisti e degli esponenti della società civile arrestati e condannati, in questa nuova stagione di revival conservatore, si allunga sempre di più. L’attivista per i diritti umani, Narges Mohammadi, è stata condannata a sei anni di prigione per “atti contro la
sicurezza nazionale”, e a due anni di prigione e 74 frustate per attacchi all’ordine pubblico in assenza del suo avvocato. Lo scorso 19 gennaio Mohammadi era stata trasferita dopo 64 giorni di isolamento dalla prigione di Evin nel carcere di Qarchak.
La nuova condanna è arrivata dopo il rilascio di Mohammadi che già aveva trascorso un anno in carcere. Il suo arresto risaliva al novembre 2019 quando Mohammadi stava partecipando al funerale di Ebrahim Ketabdar, uno tra le decine di vittime delle proteste
anti-governative che hanno attraversato il paese. La precedente condanna a 30 mesi di prigione e al bando dalla partecipazione alla vita politica per due anni per Mohammadi è arrivata nel maggio 2021 con l’accusa di “propaganda contro il sistema politico e ribellione
contro l’amministrazione penitenziaria”.
Secondo il suo avvocato, durante l’udienza, durata solo pochi minuti, lo scorso 12 gennaio, il giudice ha fatto anche riferimento, tra le accuse, alla nomination al premio Nobel per Mohammadi, presentata da due parlamentari norvegesi. Già nel 2015 Mohammadi era stata condannata a dieci anni di prigione per aver fondato un “gruppo illegale”. Il riferimento è a Step by Step to Stop the death penalty, think tank che si adopera nella sensibilizzazione contro l’uso della pena di morte in Iran, della quale però
Mohammadi non risulta tra i membri fondatori. Abtin Baktash e la fine in prigione.
A colpire gli attivisti iraniani sono poi le difficili condizioni di detenzione, in particolare in relazione alle ondate pandemiche di Covid-19 che in Iran hanno causato oltre 135mila morti. La stessa sorte è toccata al poeta e regista iraniano, Baktash Abtin, 47 anni, che è
morto in prigione dopo aver contratto per la seconda volta il virus lo scorso 8 gennaio. La notizia è stata diffusa dall’Associazione degli Scrittori iraniani (Iwa), associazione che Abtin guidava. Secondo Iwa, il trasferimento di Abtin dal carcere all’ospedale Taleghani con l’aggravarsi della malattia da Covid-19 è arrivato troppo tardi mentre sarebbero state fatte pressioni sulla sua famiglia perché venissero accelerati i tempi del suo funerale. Abtin era stato condannato dalla Corte rivoluzionaria di Teheran lo scorso 15 maggio a sei anni di prigione, insieme a Keyvan Bajan e Reza Khandan Mahabadi per “attacchi alla sicurezza nazionale” e “propaganda contro lo stato”.
Prima di Abtin, dall’inizio dell’anno era già deceduto in detenzione l’attivista di opposizione, Kian Adelpour, che aveva iniziato uno sciopero della fame nella prigione di Ahwaz. Altri due attivisti, Sasan Nikfans, accusato di propaganda anti-regime, e il sostenitore dei diritti della minoranza sufi, Behnam Mahjoobi, sono morti in prigione nel 2020. Secondo le loro famiglie, le due morti sono legate a ritardi nell’accesso alle cure mediche.
Buone notizie sono arrivate invece per Aras Amiri, dipendente del British Council arrestata al suo arrivo a Teheran nel 2018. È stata rilasciata e ha lasciato il paese dopo la condanna a dieci anni con accuse di spionaggio. Aras ha sempre negato le accuse e in una lettera
nel 2019 a Raisi, quando guidava il sistema giudiziario, ha denunciato di essere stata arrestata per essersi rifiutata di lavorare in attività di spionaggio per l’Intelligence iraniana.
I cittadini con doppia cittadinanza sono sempre più spesso nel mirino delle autorità iraniane. Come nel caso della cittadina anglo-iraniana, Nazanin Zaghari-Ratgliffe, e dell’ingegnere, Anoosheh Ashoori, che hanno accusato le autorità iraniane di trattarli come pedine di scambio con le autorità inglesi. È tornata in carcere invece, l’accademica franco- iraniana Fariba Adelkha. Condannata a cinque anni in prigione dal maggio 2020 con l’accusa di “cospirazione contro la sicurezza nazionale”, Adelkha era stata rilasciata. Il collettivo a sostegno di Adelkha ha fatto sapere in una nota che “il governo iraniano sta usando in modo cinico la nostra collega per scopi di politica interna ed estera che restano opachi e non hanno niente a che fare con le sue attività”. Secondo il gruppo, l’arresto avrà effetti negativi sulla salute di Adelkha così come è avvenuto nel caso di Baktash Abtin.
Infine, ha suscitato molte polemiche in Iran il caso di cronaca che ha coinvolto la 17enne, Ghazaleh Heydari, decapitata in una “disputa familiare”. Heydari, che viveva nella provincia araba del Khuzestan, si era sposata con suo cugino all’età di 12 anni. Dopo il femminicidio, sono stati arrestati il marito e il cognato della vittima che avrebbe subito anche maltrattamenti domestici e per questo avrebbe tentato di fuggire in Turchia.
Nonostante la legge per la Protezione, dignità e sicurezza delle donne sia stata introdotta lo scorso anno dal parlamento iraniano, molti attivisti per i diritti umani criticano la mancanza di una definizione chiara di violenza domestica contro le donne in Iran e i limiti imposti nella criminalizzazione dello stupro e del matrimonio di minorenni.
Sono bastati pochi mesi di governo dei conservatori dopo la fine dei due mandati del moderato, Hassan Rouhani, per aggravare la situazione dei difensori dei diritti umani e degli attivisti politici in Iran che continuano ad affollare le carceri del paese. Mentre non si
fanno passi avanti nei negoziati sul nucleare, nonostante le posizioni meno intransigenti del presidente Usa, Joe Biden, e le mediazioni del Qatar, e si intensificano gli scontri reciproci in Yemen tra milizie filo-iraniane Houthi, da una parte, ed Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, dall’altra, a fare i conti con la crisi economica e la censura interna è ancora una volta il popolo iraniano.