Giustizia: lavoro, pena e reinserimento sociale: gestire condannati non è un affare privato
Corriere della Sera, 25 gennaio 2015)
detenuti bisogna farli lavorare”, dice la legge, perché
nell’occupazione c’è la miglior garanzia di riabilitazione, e
infatti le statistiche dimostrano che quando nel periodo di
detenzione si è svolta una regolare attività, le recidive calano
drasticamente. Dentro le carceri italiane di lavoro da fare ce n’è,
ma siccome – sempre per legge – il lavoro deve essere stipendiato e
di soldi non ce n’è per tutti, quasi l’80% dei detenuti guarda il
soffitto.
proposta che avevo lanciato, attraverso Report e le pagine del
Corriere (14 gennaio 2014), era di cambiare la norma ispirandosi agli
esempi del Nord Europa o ad alcune felici esperienze del Nord
America, dove l’amministrazione penitenziaria calcola lo stipendio,
ma lo trattiene a compensazione delle spese di mantenimento,
lasciandogli 50 euro mensili per le piccole necessità e concedendo
benefici e sconti di pena. Un sistema che incentiva il detenuto a
darsi da fare, favorisce il reintegro attraverso l’apprendimento di
un mestiere, e consente al sistema carcerario di non gravare sulle
casse dello Stato.
sono gli affidati in prova al servizio sociale, che invece scontano
la pena svolgendo attività a titolo gratuito presso enti pubblici,
parrocchie, associazioni di volontariato. Significa che, se io sono
un privato e ho un’impresa edile, non posso prendermi un condannato a
una misura alternativa e farlo lavorare gratis. Nella realtà
italiana però i controlli sono pochi, mancano i progetti e alla fine
il condannato autocertifica la propria “attività riparatrice”.
a differenza degli esempi stranieri, dove, anche in questi casi ad
occuparsi del problema è l’amministrazione penitenziaria, che decide
e organizza i lavori di pubblica utilità, in Italia abbiamo
preferito coinvolgere le cooperative sociali, tra cui anche quelle
finite nell’inchiesta mafia capitale. Partendo dalla mia proposta,
Letizia Moratti, persona sensibile al mondo del volontariato, ma
anche attenta imprenditrice, ha lanciato la sua (19 gennaio scorso),
citando l’esperienza della comunità di San Patrignano.
improprio poiché il tossicodipendente e il condannato non possono
essere messi sullo stesso piano: il primo entra volontariamente in
comunità e volontariamente ne esce, il secondo no. La
sua proposta è quella di sollecitare il ministero della Giustizia ad
accogliere il progetto che ha presentato insieme a Banca Prossima,
del gruppo Intesa San Paolo, e ad altre realtà del mondo non profit.
Il progetto si propone di accogliere mille detenuti in regime di
esecuzione esterna della pena, e garantirebbe, secondo l’ex sindaco
di Milano, il reinserimento lavorativo, facendo risparmiare allo
Stato 200 milioni di euro.
il reinserimento è una promessa, e non una garanzia, mentre il
risparmio di 200 milioni non si capisce da dove salti fuori, visto
che, in questo caso, il condannato in carcere non ci andrebbe
comunque. La Moratti intende forse sostituirsi ai servizi sociali?
L’operazione si finanzierebbe con l’emissione di Sib (Social Impact
Bond): una specie di obbligazione che ha un rendimento solo quando
vengono raggiunti specifici risultati sociali.
Sib è considerato un prodotto finanziario altamente speculativo,
dove il risparmiatore che investe rischia di rimetterci i suoi soldi
perché i risultati potrebbero anche non esserci. E come si misurano
i risultati? Attraverso un accordo fra le parti (ovvero lo Stato e la
“Moratti Holding”) nel quale è definito il criterio di
“impatto sociale” positivo delle attività del progetto, a
date scadenze. Intenderebbe quindi riunire altre cooperative sociali,
finanziarsi con i Sib, per gestire i condannati non pericolosi, farli
lavorare gratis e rientrare dei costi vendendo il prodotto del loro
lavoro? Se la sostanza è questa, si aprirebbe la strada alla
privatizzazione del disagio sociale, con inevitabile speculazione
privata del lavoro del condannato. Una pericolosa deriva, dove lo
Stato, per incapacità organizzativa, abdica al proprio ruolo.
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