Se il diritto alla vita diventa tortura
L’Associazione per i Diritti umani ha intervistato per voi la regista Costanza Quatriglio che torna a raccontare un fatto tragico dell’Italia di oggi, con il suo nuovo documentario intitolato “87 ore”:
Il film racconta un fatto di cronaca accaduto nel 2009, in cui un insegnante delle elementari, Francesco Mastrogiovanni, della cittadina di Castelnuovo Cilento, ricoverato con TSO nel reparto psichiatrico del Vallo della Lucania in stato confusionale, vi è morto dopo solo 87 ore. Mastrogiovanni rimase, infatti, legato ad una barella, senza poter nemmeno andare in bagno, in condizioni disumane e nell’indifferenza di medici ed infermieri che lo hanno malnutrito e imbottito di sedativi, senza accorgersi delle sue sofferenze. Morì soffocato per un edema polmonare.
Al processo i medici furono condannati, ma non gli infermieri. La sentenza del giudice, Elisabetta Garzo, ha condannato i medici che hanno avuto in cura Mastrogiovanni dal ricovero del 31 luglio 2009 fino al decesso avvenuto nella notte tra il 3 e il 4 agosto, ritenendoli responsabili di sequestro di persona e decesso come conseguenza di altro reato e falso ideologico, per non aver annotato le contenzioni nella cartella clinica.
Ringraziamo moltissimo Costanza Quatriglio per la sua disponibilità.
Dove ha reperito i materiali per la realizzazione del film?
I materiali sono docuemnti pubblici, resi pubblici grazie ad una scelta – molto dolorosa – da parte della famiglia Mastrogiovanni.
Ho dovuto fare i conti con questo documento che attestava uno sguardo meccanico su quello che stava succedendo lì dentro perchè è lo sguardo delle telecamere di sorveglianza e, quindi, ho deciso di realizzare un film sul “togliere”, cercando di costruire un’esperienza per lo spettatore con lo stesso punto di vista delle telecamere, ma anche di coloro che guardano i monitors.
Che significato hanno le videcamere di sorveglianza?
Hanno un significato procedurale: è come se ci fosse un meccanismo che va in automatico, senza l’intervento critico di un essere umano. E’ importante seguire quelle immagini perchè sono, ontologicamente, legate a quello che è accaduto: sono immagini che – andando a scatti – ci rimandano ininterrottamente un accanimento che è stato sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno vede.
I rumori, i suoni, le immagini creano uno straniamento nello spettatore, ma poi anche paura per quello che accade ad una persona…
All’inizio lo straniamento deriva dal fatto che il punto di vista cambia varie volte: prima sentiamo parlare di lui (punto di vista corale e fantasmatico), poi gli spettatori arrivano in ospedale, con l’ambulanza, insieme al professore e a quel punto lo vediamo in terza persona.
Quando lo vediamo con le videocamere di sorveglianza, assistiamo a quello che gli succede e ci assale la paura: ci spaventiamo quando lo legano con le cinghie, quando trascorre la notte da solo, etc. Le ore filmate sembrano tutte uguali, ma non è così perchè vediamo quell’uomo legato al letto, perdere progressivamente la vita e questa è un’esperienza traumatica per lo spettatore.
Perchè ha deciso di scandire il film con i capitoli?
La scansione in capitoli deriva dal fatto che ho sentito il bisogno di trovare delle chiavi di lettura da attribuire alle singole parti del film per restituire allo spettatore il percorso che ho fatto io, che è quello di capire fino in fondo la portata di senso di quello che vede.
Le indicazioni di come dovevano essere lette le immagini delle videocamere le trovavo anche nelle documentazioni a latere che ho studiato, anche documenti giudiziari e medici.
Sono cinque capitoli, divisi tra giorni e notti in cui, a ogni giornata, ho dato una chiave di lettura diversa e questa è stata un’intuizione narrativa: in un film in cinque atti si può ripercorrere il concetto di cura.
L’alienazione e il corpo: abbiamo visto una persona ridotta ad OGGETTO della visione, ma anche ad oggetto sociale. Come si può tornare ad essere considerati SOGGETTI?
Il film pone una questione enorme che è quella della relazione tra esseri umani, dello sguardo e dell’ascolto.
Mastrogiovanni era visibile attraverso un occhio meccanico, ma era invisibile all’occhio umano e questo è difficile da accettare. E’ stato sorvegliato, ma così è stato anche disumanizzato; se, invece, fosse stato guardato, forse non sarebbe morto.
La cultura della sicurezza, la coercizione e la sottrazione della dignità: cos’altro si vuole denunciare con questo film?
Paradossalmente non lo considero un film di denuncia perchè qui le ragioni sono introvabili.
Questo è un film che ha a che vedere maggiormente con il metalinguaggio. Certo, quello che succede lì dentro non può che essere disumano: nel 2015 esistono ancora luoghi in cui si sopende la capacità di pensare e la banalità del male è ancora un concetto molto attuale.
Vuole commentare la scena in cui si intravedono le immagini di una telenovela che contrastano con quelle successive nell’OPG?
A guardare quella telenovela è una madre che soffre un indicibile dolore per la morte del figlio e non sa come sia morto.
Le mura della casa sono le mura di protezione della famiglia verso quella donna che non ha mai visto le immagini della videosorveglianza.
Ho voluto delegare a quella televisione riflessa sul vetro un sentimento d’amore nei confrontidi questo figlio perduto e, nello stesso tempo, proteggerla dalle altre immagini terribili.
La nipote di Mastrogiovanni, Grazia Serra, ci accompagna nella visione e questo è un grande esercizio di presa di coscienza: può servire anche ad un pubblico più giovane?
Sì perchè, attraverso quell’analisi, si elabora ciò che sta accadendo ed è un’elaborazione condivisa. Lei era molto giovane quando tutto ciò è accaduto ed è cresciuta rapidamente perchè si è assunta la responsabilità di farsi carico della fragilità di un’intera famiglia devastata dal dolore.
Una risposta
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