Livia Grossi e il suo giornalismo a teatro
L’Associazione per i Diritti umani ha avuto l’occasione di rivolgere alcune domande alla giornalista Livia Grossi che, in questo periodo, sta portando in alcuni teatri milanesi l’esperienza del reportage sul palco. Si chiama proprio Reportage teatrale. Il giornale parlato. Rassegna d’informazione in scena. il progetto di Livia Grossi, al Franco Parenti di Milano: il teatro è Arte e comunicazione e, come tale, suscita emozioni e dovrebbe fare riflettere.
Ecco a voi le risposte della giornalista che ringraziamo molto.
Come si possono coniugare giornalismo e teatro?
Pratico la professione di giornalista da 25 anni, occupandomi di Spettacolo e Cultura per il Corriere della sera (da diciotto anni), precedentemente per Il Tempo, l’Unità e altre testate e – sia come giornalista sia come lettrice – mi sono resa conto che a volte si girano le pagine dei quotidiani con un po’ di superficialità per cui ho pensato che fosse interessante provare ad informare le persone tramite la forma del reading teatrale: dare voce a chi non ne ha – perchè certe notizie non trovano ampi spazi nella stampa nazionale – attraverso le storie che ho raccolto anche durante i miei viaggi nel mondo, in particolare in Africa subsahariana. L’idea, infatti, è nata dalle figure dei griots, i cantastorie afrcani, che di villggio in villaggio, tramandano le tradizioni, la Memoria, le vicende delle famiglie e anche insegnamenti di vita. Inoltre, in passato, ho seguito anche un’esperienza di teatro degli incontri, dove le persone comuni sono chiamate a scrivere e mettere in scena alcuni testi a carattere sociale, e tutto questo materiale è diventato il reportage che proponiamo nei teatri della città.
Qual è il filo conduttore che lega le storie raccontate?
I diritti civili e umani. Le prime tre sono al femminile. Presso il Centro di accoglienza e di aiuto in Via Sammartini a Milano, pochi anni fa, ho avuto una conversazione con una signora sudamericana (è tutto quello che posso dire sulla sua identità) che ha trascorso otto anni in un carcere del proprio Paese per l’accusa di terrorismo: all’epoca aveva 26 anni e allattava il figlio appena nato. E’ riuscita ad essere liberata e a scappare, ma il marchio le è riamsto addosso: per la “sua gente” rimane il tatuaggio di terrorista e ha divuto attendere due anni prima di vedersi riconosciuto lo status di rifugiata. Poi ascoltiamo le parole di Puska, nubile, albanese e donna, simbolo di un caso antropolgico di grande rilevanza perchè, per poter lavorare e gestire la famiglia da sola – lei non si è sposata, ma molti altri uomini sono morti nel conflitto, nella mafia e per malattia – secondo la legge del Kanun, è stata costretta a cambiare genere: Puska è diventata un uomo. Si veste, parla e si comporta come un uomo. Ora ha 76 anni, ma la sua anima parla ancora al femminile perchè tutti la riconoscono come maschio, si rapportano a lei come tale, ma non è cambiata la sua identità biologica. E ancora: nella foresta del Senegal, una donna di 46 anni, analfabeta, perde le due figlie, di 6 e 7 anni, a causa dell’infibulazione. La signora lascia il marito e torna nella propria famiglia di origine, per fortuna una famiglia di persone illuminate. Dopo qualche tempo incontra un altro uomo, ma gli fa giurare che se fosse rimasta incinta di una femmina non avrebbe praticato alcuna mutilazione genitale, il marito accetta e metteranno al mondo altre due figlie.
Da allora, la signora senegalese si sposta, di capanna in capanna, per parlare con le altre donne, per dar loro informazioni, per fare attività di prevenzione. Dieci anni di lavoro insieme all’UNICEF, a una ONG locale e a un movimento al femminile del parlamento di Dakar hanno portato a sancire l’infibulazione come reato, anche il 28 o 30% della popolazione – cristiana e musulmana – continua a praticarla.
C’è una storia più forte o grave delle altre?
Direi di no. Ogni racconto ha la propria peculiarità, è grave per le conseguenze subìte dalle persone che ne sono state protagoniste e ogni vicenda mette in luce un problema o un diritto negato.
L’Occidente e il Sud del mondo: errori e opportunità…
L’errore più grave è l’indifferenza: legare certi temi soltanto alla giornata della ricorrenza (ad esempio l’8 marzo). C’è una parte di società civile attenta e impegnata, ma è una minoranza.
E’ come se, negli ultimi 20 anni, ci avessero somministrato un sedativo per la mente e la coscienza, quasi che determinati argomenti fossero disturbanti e, quindi, fosse meglio non parlare di tematiche serie e importanti. Invece è necessario aprire gli occhi, guardare il mondo diversamente, anche perchè abbiamo la fortuna di accedere all’istruzione e alle informazioni, possiamo muoverci ed è nostro dovere farlo, fare qualcosa di attivo, prima per allenare la nostra capaicità critica e poi per trasformare i nostri comportamenti e le nostre azioni. L’indignazione non deve rimanere individuale e sterile, ma collettiva e produttiva di cambiamento.
I prossimi appuntamenti del “Reportage teatrale” sono:
7 aprile: ci si sposta in Albania con la storia di Puska; ospite l’antropologo Franco La Cecla.
21 aprile: Livia Grossi porta sul palco la vicenda della senegalese Marietu ‘Ndaye, che dopo la morte delle figlie per infibulazione ha deciso di ribellarsi a questa terribile pratica. Interviene Alessandra Kustermann, primario alla Mangiagalli.
12 maggio «Nonostante Voi. Storie di donne coraggio», con la regia di Gigi Gherzi. Una riflessione sui ruoli sociali e sul valore della donna come individuo.