“Stay Human – Africa” : Campo di volontariato in Senegal
di Veronica Tedeschi
Questo diario è stato scritto dopo il campo di volontariato in Senegal, organizzato dall’associazione “Oltre i confini” di Milano dal 1 agosto al 20 agosto 2016.
Marco, Riccardo, Pietro, Lorenzo, Veronica, Elisa, Laura.
Lamine, Diatta, Assane, Sadibou, Elhadji, Andrè, Fallou.
Giorno 1
“Taxi, taxi, cambio, cambio”, uno dietro l’altro, con gli occhi fissi sulle valigie, obbligati a percorrere una passerella non invitante, ai lati della quale giovani senegalesi lottavano per accaparrarsi il turista migliore, il più ricco, da poter trasportare a prezzi rialzati in uno degli hotel sulla costa di Dakar.
Questo l’arrivo in Africa di noi volontari “Oltre i Confini”: forte, buio e caldo, molto caldo. Il primo gesto scesi dall’aereo è stato un respiro profondo, che consentisse a quell’aria tanto umida di arrivare ai polmoni; ancora un altro respiro, l’aria sembrava non arrivare, aiuto.
Superata la gabbia dei leoni abbiamo atteso altri due compagni di viaggio arrivati con un altro aereo, per poi partire verso Malika, quartiere nella periferia di Dakar.
Non ho retto il viaggio, lo ammetto, la mia testa ciondolava spesso e volentieri e il viaggio è sembrato infinito. Quando l’auto si è fermata mi sembrava di aver percorso centinaia di chilometri, il posto in cui mi trovavo non era quello da cui ero partita: la strada era fatta di sabbia, le case tutte basse, su uno o due piani al massimo, e un incalzante odore di fogna circondava ogni cosa.
Il sonno ha prevalso su tutte le considerazioni del caso, il tempo di mettere le lenzuola sui letti, barricarci sotto le zanzariere e le nostre prime ore di Africa stavano per abbandonarsi a Morfeo.
Riccardo: “Non dimenticherò mai quel viaggio in taxi dall’aeroporto a Malika, lo stradone in mezzo alla sabbia, il paesaggio lugubre della periferia urbana, la mente affollata da innumerevoli pensieri… Probabilmente avevo già capito che quella sarebbe stata l’esperienza più intensa della mia vita. Quello che non avevo ancora capito però, è che sarebbe stata anche la più bella”
Il risveglio ha permesso di osservare meglio la casa ed il quartiere. La conoscenza dei vicini non è tardata ad arrivare, dai più grandi ai più piccoli, dimostratisi per nulla diffidenti per l’arrivo di un Tubab (bianco in lingua Wolof).
È seguito un piccolo giro del quartiere con Diatta, il proprietario di casa, che ci teneva molto a farci conoscere il posto e sa famille.
Sì, ci trovavamo veramente dall’altra parte del mondo, stavamo camminando sulla sabbia dell’Africa tanto sognata e sì, era come ce lo aspettavamo. I bambini, onnipresenti, erano nella quasi totalità dei casi sempre scalzi e sorridenti.
Abbiamo camminato sulla sabbia per diversi minuti: guardandoci intorno abbiamo notato che le strade si alternavano a piccoli lotti di terreno verde che, a primo impatto, sembravano utilizzati come discariche; ammetto non fosse un bel vedere, soprattutto per la zona in cui queste piccole discariche si trovavano: in mezzo alle case e in luoghi di passaggio.
Le case: mia madre direbbe “diroccate”, in modo non corretto, diroccato significa cadente, in rovina. Le case a Malika, invece, per quanto vogliose di ristrutturazioni, erano piene di vita, di cucine colme di riso e di bambini, tanti bambini, saltellanti su una pavimentazione spesso inesistente.
Il campo sarebbe iniziato una settimana dopo il nostro arrivo, questi primi giorni sono stati utili per farci conoscere e per conoscere il luogo in cui stavamo, sono stati momenti fondamentali per alleggerirci il peso del cambiamento e per adattarci alla cultura del luogo.
Nel pomeriggio ci siamo recati al mercato per comperare piccolezze utili in casa, come pentole e bacinelle.
Il mercato è stato lo scenario più difficile che ho visto ma che si è poi trasformato in quello più amato; tante persone, tanto cibo, tante mosche sul cibo, tanto disordine, tanto amore.
Centinaia di persone che parlavano, che contrattavano, donne con abiti colorati che pulivano l’insalata sedute per terra, arrotini che limavano il ferro, cavalli che trasportavano bombole di gas; tante persone, tante parole, tante emozioni.
Lorenzo: “Tolleranza.. sicuramente la parola con la quale identifico il Senegal è tolleranza nei confronti dell’esterno, degli stranieri. Questa caratteristica qui è molto più sentita rispetto ad altri Stati africani.
Giorno 2
Prima visita all’Ecolè “Fabrizio e Cyril” di Bene Baraque.
Abbiamo consegnato vestiti e cancelleria portati dall’Italia, suddiviso i medicinali destinati all’infermeria e tradotto principi attivi e usi di questi ultimi.
La scuola è una delle più ambite nel quartiere, se non altro per la presenza dell’infermeria che viene puntualmente arricchita dai volontari; questo perché la maggior parte delle famiglie non può permettersi di acquistare farmaci, anche i più economici e quindi, il più delle volte, la scelta di una scuola piuttosto che un’altra è basata sulla presenza di un’infermeria che, in caso di necessità, possa divenire utile ai figli.
L’approccio alla scuola è stato differente, la tranquillità che aleggiava dentro quelle mura era ben diversa dall’atmosfera presente in tutto il quartiere e questo non poteva che essere un punto a favore per un ottimale insegnamento.
Finite le prime commissioni a scuola, il pomeriggio è stato dedicato al relax, la mer, l’oceano.
Circa 45 minuti di camminata per arrivare alla spiaggia, passando per scorciatoie e strade dissestate, tra i bambini più dolci che volevano essere fotografati e quelli più “minacciosi” che marcavano il territorio chiedendoti il nome prima di farti passare.
Nonostante in tutta la periferia le strade fossero fatte di sabbia, arrivati al mare, la sabbia della spiaggia sotto ai nostri piedi era diversa, la sporcizia era più limitata e il profumo del mare intenso.
Come disse Jules Verne, il mare è un immenso deserto dove l’uomo non è mai solo, perché sente fremere la vita ai suoi fianchi, così era. Non ci sentivamo soli guardando l’oceano, “sono arrivata” ho pensato guardando il mare; mi trovavo esattamente nel posto in cui volevo essere.
Giorno 3
Prima gita ufficiale, Dakar.
La città si presenta disordinata, chiassosa e ricca di persone. Molto più europea rispetto alla periferia, con tanto di auto, mezzi pubblici e persone, tante persone. L’impatto alla capitale è stato particolare, quasi confuso; abbiamo avuto difficoltà ad orientarci e se fossimo stati turisti senza una guida senegalese sicuramente ci saremmo persi.
L’isola di Gorèe, che avremmo visitato il giorno successivo, si trova davanti la costa della città di Dakar e fu il primo insediamento stabile di europei, in specie portoghesi (nel 1500).
Qui iniziò la tratta degli schiavi, in accordo con i capi Wolof, che vendevano gli schiavi che a loro volta avevano rapito o acquistato più nell’entroterra. Gorèe divenne poi olandese, sino a che non fu acquistata dai francesi. Nel 1677 il Senegal divenne uno dei principali centri africani della tratta di schiavi.
La situazione non mutò fino al 1958, anno in cui il Senegal divenne repubblica autonoma per poi fondersi con il Mali. La Federazione del Mali non resse alla decolonizzazione e appena il 20 agosto 1960 Senegal e Mali dichiararono la propria indipendenza.
Da questo breve cenno storico, si arriva direttamente in Piazza dell’Indipendenza, centro economico di Dakar e monumento fondamentale per il ricordo senegalese. Alla visita delle principali piazze della città è seguito il tour al mercato turistico. Destreggiarsi tra negozianti con merce e oggettistica bellissima, è stato faticoso, lo ammetto.
Chissà se tutti i senegalesi incontrati al mercato si rispecchiano ancora oggi nel monumento più imponente presente nella capitale: il ricordo della resistenza africana.
Imponente, fantastico. Sembra di uscire dalla città per recarsi su di una piccola collina felice, capace di osservare la città dall’alto in silenzio, quasi a controllarla.
Monumento voluto e finanziato da 17 Paesi africani: un uomo che guarda fiero verso l’alto (libertà), con un bambino in braccio che punta il dito verso l’Oceano, verso la costa dell’America (futuro) e una donna tenuta per mano con lo sguardo fisso verso l’isola di Gorèe (ricordo).
Ogni considerazione e spiegazione in più sminuirebbe l’imponenza e l’importanza di questa enorme statua che dall’alto protegge la città e accoglie i turisti.
Giorno 4
Improvvisata una festa fuori da casa nostra con jambe e altri strumenti acquistati al mercato. Come se i 30 bambini radunatisi in pochi minuti non aspettassero altro che avere degli strumenti da suonare.
I sandaletti di una trentina di bambini in pochi minuti si sono riempiti della sabbia della nostra via, chi ballava, chi cantava e chi suonava. Bambini seduti con gli strumenti in mano, bambine davanti a ballare quando la timidezza lo consentiva e poi noi, che abbozzavamo in malo modo qualche passo, che non stavamo a ritmo ma che facevamo sorridere tutti.
Le emozioni di questa mattinata hanno superato molte altre, descrivere il perchè risulta complicato, immersi nella musica, i nostri piedi si muovevano in un unico grande suono, quasi ritmato.
Le emozioni sono, poi, continuate a scuola, dove i bambini del quartiere fremevano per conoscerci e sono venuti a salutarci a riunione conclusa.
Lo stesso amore, gli stessi sorrisi.
In questa giornata siamo stati ufficialmente accettati da tutto il quartiere, siamo divenuti parte del gruppo! Siamo africani senza essere nati in Africa, l’Africa oggi è nata dentro di noi.
Marco: “Il “mio Senegal è stato quello delle chiacchere con la gente, degli sguardi diffidenti che un istante dopo diventano sorrisi, delle fotografie in giro, delle partite a calcio con i bambini, delle sessioni di percussioni improvvisate insieme. Quello che ti fa riscoprire il piacere, semplice e originario, della condivisione.”
Giorno 5
Isola di Gorèe.
Una porta di non ritorno… da dove?
Dalla tua terra, dal tuo calore, dai sorrisi che ami.
Una porta di non ritorno… per dove?
Una porta verso l’Oceano, verso il mare che sembra infinito ma che arriva ad un punto fermo, in una terra cattiva, non accogliente, pronta a sfruttarti.
Io amo la mia terra, non voglio partire.
Io non posso decidere, io sono un pezzo di carne per gli squali.
Io ho dei sentimenti, mia madre non la rivedrò più?
Io abito qui, bianchi bastardi.
Una casa, la prima da quando siamo in Africa, senza bambini, senza profumo di cibo, senza persone. Con un’aria pesante. Quattro mura piene di odio e di razzismo; bambini stretti in una stanza, costretti da catene minuscole come i loro polsi.
Immobili, sdraiati, uno di fianco all’altro.
I pianti, le urla, “dov’è la mia mamma?”.
Oggi Gorèe è un’isola molto bella, il panorama è mozzafiato. Siamo in mezzo all’Oceano, sembra che niente possa colpirci, tranne il ricordo, il peso del male, il peso del pianto e della sofferenza, il peso della schiavitù.
Per non dimenticare.
Giorno 6
Riecco l’immenso Oceano davanti ai nostri occhi, , lo stesso Oceano di Gorèe.
Quanto male ha dovuto sopportare e quanto ancora oggi è costretto a vedere.
Non si vede la fine, tranne al tramonto quando i colori permettono di distinguere il cielo e il mare in modo netto.
“Bienvenue au Senegal”, riecheggiano nella mia mente parole e voci di gente comune incontrata lungo la strada per il mare, voci di bambini e di adulti, accoglienti e dolci. Pronti a riceverci nel loro Paese, cosa tanto complicata che noi occidentali, tanto evoluti ai loro occhi, non siamo riusciti a fare e che, ad oggi, non abbiamo ancora imparato.
Elisa: “L’Africa mi ha fatto riscoprire l’importanza della condivisione, della cultura e della fratellanza. Mi ha spogliata di tutto il superfluo aprendomi cuore e mente all’essenza della vita”
CAMPO DI VOLONTARIATO – giorni da 7 a 20
L’emozione è stata protagonista in tutti questi giorni, tra canti e abbracci le due settimane di campo sono volate. Nonostante la paura di non essere compresa, di non saper gestire una classe o ancora, di farmi sopraffare dalla gioia, le emozioni positive provate hanno reso questi giorni rasserenanti e piacevoli.
Il campo, iniziato lunedì 8 agosto, consisteva nell’organizzazione e totale gestione di un campo estivo con sede nella scuola Fabrizio e Cyril di Bene Baraque, aperta a tutti i bambini del luogo, non limitata agli iscritti effettivi della scuola dell’intero anno scolastico.
Questo significava preparare lezioni e animazione. Quest’ultima a mio parere è stata il punto di forza di tutto il campo: l’animazione è risultata fondamentale per fare sfogare i ragazzi, permettergli di giocare, piccoli e grandi insieme, è risultata utilissima per creare un rapporto oltre l’insegnamento vero e proprio all’interno delle classi.
Le classi, luoghi di lavoro in grado di contenere anche 40 bambini, non erano esattamente come ce le aspettavamo, o forse sì. Il disordine era imperante; anche in assenza di bambini le classi sono state trovate sporche e confuse. “Del resto siamo in Africa” ho pensato subito ma no, non era una giustificazione. Affermare di essere in Africa non vuol dire assolutamente niente, le classi non erano sporche perché ci trovavamo in Africa, l’Africa non è nata sporca e le classi bastava ripulirle.
Questo discorso, personalmente è balenato nella mia testa diverse volte durante queste settimane, naturalmente riferito a situazioni e questioni diverse. Potrebbe essere un buon argomento di discussione ma questa non è la sede adatta per l’approfondimento. In ogni caso, è bastato qualche giorno di lezione per “metter sotto” insegnanti e alunni anche nella pulizia delle classi.
Il primo giorno i bambini, in trepida attesa, attendevano i bianchi che, come di consueto, avrebbero tenuto il campo quest’anno. Da lontano ne scorgevamo qualcuno che richiamava l’amico a guardarci, un altro che correva contro di noi e una decina di ragazzi affacciati ai balconi della scuola che parlavano ridendo tra di loro. Stavano aspettando tutti noi, quei sei ragazzi sulla trentina un po’ spaventati che si ritrovavano già a stringere la mano a qualche bambino, che si guardavano intorno con un sorriso immenso e che erano la novità di tutto il quartiere.
Entrati a scuola, la paura è diminuita, gli insegnanti e i ragazzi ci hanno subito accolto con delle canzoni che non dimenticherò mai, che hanno riempito tutte le nostre giornate, dalla permanenza a scuola ai viaggi in car-rapide, le abbiamo canticchiate per tutta la permanenza e ancora oggi risuonano nella mia testa, come un mal d’Africa che non se ne andrà mai.
AFRIQUE, MON AFRIQUE, AFRIQUE MON AFRIQUE
AFRICA SAMA REW LA’
MAMA AFRICA
AFRIQUE DES FIERS GUERRIERS
DANS LES SAVANES ANCESTRALES
AFRIQUE QUI CHATE, MA GRANDMERE
MAMA AFRICA
AU BORD DE TES FLUEVES LONTAINES
JE T’AI JAMAIS CONNU
AFRICA SAMA REW LA
MAMA AFRICA
All’interno delle classi, i ragazzi cambiavano atteggiamento, la scuola resta il luogo fondamentale nella crescita del bambino, la soggezione provocata dal frustino e dell’insegnante è parte del gioco. Essendo un campo estivo sicuramente l’atmosfera era molto più rilassata ma le ore di lezione restavano tali e l’insegnante era comunque una persona da rispettare, se poi si trattava di un maestro bianco, ballerino durante l’animazione e ridicolo quando provava a parlare wolof ancora meglio.
Le classi erano tre e i ragazzi divisi per età, una classe per i piccoli, i medi e i grandi. Esclusi i piccoli, che avevano attività ad hoc composte essenzialmente di giochi e pasticci con le tempere, per i grandi e medi si alternavano lezioni di inglese e matematica. L’intera gestione del campo era affidatta ai campisti italiani, sempre affiancati da almeno un insegnante senegalese, figura fondamentale per ristabilire l’ordine in momenti di euforia.
Pietro: “A scuola ho ricevuto un affetto umano spontaneo e straordinario. Con i loro ampi sorrisi, con le mani tanto strette alle mie e attraverso gli affanni per entrare in classe, bloccando la porta di ingresso, i bimbi mi hanno mostrato un benvenuto e una fiducia incodizionati ed inspiegabili.
Il fatto di essere un tubab, oltreche un elemento di novità non bastano a spiegare la forza della loro apertura nei miei riguardi. Ho provato un forte senso di gratitudine ma mi sono sentito anche incoraggiato e spinto a fare del mio meglio per loro, ma confondendo a volte chi tra noi fosse davvero la guida e disposto a seguire i passi dell’altro. Forse erano loro che inconsapevolmente mi stavano indicando un orizzonte più umano, sincero ed allegro, certamente diverso rispetto a quello a cui siamo abituati nella nostra vita frenetica occidentale.”
Entrando in una scuola africana ci sono diverse cose da tenere in considerazione, a partire dalla cultura e dalla povertà del luogo in cui gli alunni vivono.
Le difficoltà maggiori che abbiamo incontrato sono riferibili al mantenimento della cancelleria; “essendo un campo estivo”, ci hanno spiegato gli insegnanti del luogo, “qualsiasi cosa consegnata, dal pastello al foglio, è un di più per i bambini e tendono a tenerlo per loro, come fosse un premio”.
Giustificazione parziale per il pensiero occidentale, scontata in quello africano; molte situazioni che a noi parrebbero scontate sono da ridimensionare, condizioni che farebbero andare su tutte le furie sono qui considerate normalità. Il contesto in cui questi ragazzi vivono fa sì che ogni oggetto messo a loro disposizione sia considerato un po’ anche loro.
“Chi ha poco per sè, ha tanto per gli altri”, così mi dissero qualche tempo fa e in Africa questa cosa è quanto mai sentita, la condivisione del cibo, degli spazi, delle emozioni.
Ho ricevuto dei regali da alcune mie alunne, senza che queste volessero nulla in cambio.
Ho ricevuto “inviti a cena” da persone sedute per terra a mangiare riso da una ciotola comune.
Ho ricevuto abbracci spontanei senza un motivo specifico.
Parlare di condivisione con riferimento ai bambini è complicato, italiani o senegalesi, poco cambia. Soprattutto all’interno di una scuola, è stata dura far condividere la cancelleria che avevamo portato per loro, molte cose sono andate perse e molte altre non sono state restituite.
“Madame, madame, madame” “le crayon, le crayon, le crayon”.
Qualsiasi colore avessero in mano era quello sbagliato, il colore che serviva a loro era in mano ad un altro bambino e loro, a suon di parole e alzate di mano, erano disposti a tutto per averlo.
Le classi erano comunque gestibili, i ragazzi ascoltavano con interesse e, concluso il compito, i bambini facevano a gara per essere i primi a prendersi il “Bravo!” dall’insegnante, che facesse invidia a tutti i compagni. La classe più complicata è forse stata quella dei piccoli per difficoltà legate essenzialmente alla lingua; questo perchè fino ai 7/8 anni i bambini in Senegal parlano solo lingua woloof alternata a pochissime parole di francese.
I volontari italiani impiegati in questa classe hanno, quindi, avuto difficoltà a farsi comprendere e rispettare per mantenere l’ordine.
Laura: “Un episodio particolarmente emozionante a scuola, nella classe dei piccoli, è stato aiutare i bimbi, che non sapevano impugnare la matita, a disegnare e colorare. Prendere la loro mano e guidarli nell’attività mi ha trasmesso un’emozione stupenda.
Nonostante alcune difficoltà superabili e superate, due settimane di campo sono volate, tra balli sfrenati e attese interminabili per i pranzi tutto è finito e oggi mi ritrovo in Italia, davanti al mio computer a cercare di scrivere di tutte le emozioni provate. Ho deciso di inserire in questo diario le emozioni dei miei compagni di viaggio sia per farmi aiutare in questo difficile compito sia perché avere un gruppo così unito è stato fondamentale per superare le difficoltà.
Questo non vuole essere un incitamento ad andare in Africa ad ogni costo, vuole essere un consiglio a lasciarvi andare all’amore e alla felicità. A prendere la vita dal lato giusto che c’è chi, con poco, vive meglio di noi, sa gestire le emozioni in modo adeguato e non si fa sopraffare da tristezza e depressione.
C’è chi vive senza scarpe e chi lavora una vita per non rimanere senza.
Conosciute tante persone senza scarpe e tante con, penso di poter concludere che sì, si vive meglio senza scarpe.
Lasciatevi emozionare.
Veronica: “Sono diventata ricca con poco, di una ricchezza invidiabile che intendo condividere con questo diario e con i miei racconti su cosa l’Africa mi ha lasciato. Facendomi guardare negli occhi e condividendo l’amore ricevuto in questi giorni spero di essere in grado di trasmettere il calore, l’accoglienza e i sentimenti provati in questi giorni.
Il mio saluto all’Africa è stato un arrivederci, non un addio, perché una volta provate certe sensazioni è difficile farne a meno, forse è questo il mal d’Africa di cui tutti parlano?”