Libertà di migrare. Perchè ci spostiamo da sempre ed è bene così
Libertà di migrare. Perchè ci spostiamo da sempre ed è bene così: questo il titolo del saggio scritto da Valerio Calzolaio e Telmo Pievani, edito da Einaudi.
Le specie umane migrano da almeno due milioni di anni: lo hanno fatto prima in Africa, poi ovunque e il risultato è che il quadro delle popolazioni umane si è arricchito: fughe, ondate, convivenze, selezione naturale, sovrapposizione tra flussi successivi, forse conflitti tra diverse specie umane, fino a Homo Sapiens. Il cervello è cresciuto e con esso la flessibilità adattativa e la capacità migratoria. Gli esseri umani sono evoluti anche grazie alle migrazioni: questa è una delle ragioni per cui garantire la libertà di migrare, soprattutto nel momento in cui i cambiamenti climatici, oltre che le emergenze politiche, sociali ed economiche, provocano flussi forzati. Il che significa pure, ovviamente, che va tutelato il diritto di restare nel proprio Paese.
L’Associazione per i Diritti umani ha intervisto il Prof. Calzolaio e lo ringrazia moltissimo per la sua disponibilità.
Quali sono le radici antropologiche della migrazione umana?
Tra sei e due milioni di anni fa l’innovazione che fece divergere le prime specie di primati umani da tutte le altre grandi scimmie scaturì dai piedi e dalla loro meccanica, dalla postura bipede: un’invenzione formidabile, ma anche imperfetta, come spesso accade nell’evoluzione. L’abbandono dell’andatura quadrupede comportò una riorganizzazione complessa di tutta l’anatomia. Per scimmie antropomorfe africane obbligate a sempre più frequenti spostamenti in radure infuocate, ridurre la superficie corporea esposta al sole fu un efficace adattamento, così come ergersi in allerta sopra le distese erbose. Il bipedismo ci regalò inoltre alcuni adattamenti secondari preziosi come la corsa di resistenza sulla distanza e l’uso libero delle mani. Il nostro successo come esploratori planetari trova le sue radici proprio in questa transizione anatomica incompiuta e nei suoi effetti anche tecnologici e culturali. Tutte le specie si spostano, quasi tutti le specie conoscono fenomeni migratori, le specie umane hanno migrato camminando, Homo sapiens è arrivando ovunque proprio e solo camminando.
Per molte specie e in tutti gli ecosistemi la migrazione è stata ed è un fattore evolutivo fondamentale, da sempre. Migrando nascono per separazione nuove specie, ci si rimescola e le popolazioni biologiche si rafforzano. Sulla superficie instabile del nostro pianeta, tra incessanti cambiamenti climatici, il fenomeno migratorio rappresenta una strategia essenziale di adattamento e di flessibilità. Gli animali migrano in modo irreversibile oppure in modo ciclico e stagionale. Le specie ominine vissute negli ultimi sei milioni di anni non hanno fatto eccezione: si sono spostate, hanno vagato per altipiani e vallate dell’Africa orientale e meridionale e poi, con la comparsa del genere Homo due milioni e mezzo di anni fa, hanno dato inizio a una straordinaria sequenza di espansioni fuori dall’Africa che le hanno portate in due milioni di anni ad abitare in tutti i continenti tranne l’Antartide.
Homo sapiens inizia la sua storia circa 200mila anni fa in Africa e, come risultato di un notevole ripetuto fenomeno migratorio, a partire sempre dal continente africano, fino a poche decine di migliaia di anni fa ha condiviso l’Eurasia con almeno altre tre forme umane, uscite precedentemente dall’Africa. Per oltre il 99 per cento della nostra storia, camminare ha fatto la geografia della specie sul pianeta. Camminando siamo arrivati in ogni continente e ci siamo spostati dentro ogni continente (la loro conformazione non era esattamente identica all’attuale e l’altezza del livello dei mari è variata spesso). L’ausilio di tecniche (come la ruota) e di altri animali risale ad alcune migliaia di anni fa, la navigazione via mare riguarda quote percentuali di popolazione solo da pochi secoli, via cielo e rotaie da poco più di un secolo.
La migrazione influenza la lenta evoluzione biologica e accelera l’evoluzione culturale (rispetto a quella biologica, assai più veloce) della specie camminatrice anche durante il percorso, anche rispetto alle altre specie che si incontrano per strada (spesso portate all’estinzione da Homo sapiens, soprattutto i grandi mammiferi di Australia e Americhe), anche mentre i continui adattamenti sono fragili e precari. Qui c’è un fattore fondante del fenomeno migratorio per la nostra specie, per l’insieme dei caratteri dei gruppi etnici e dei popoli (e degli stessi geni), che è anche poi divenuta una strategia (con un maggior grado di libertà).
Siamo migranti, quindi, da sempre pur con modalità diverse: prima adagio e inconsapevolmente, poi più veloce e avendo l’intenzione di farlo; prima solo sul suolo, poi via strade, mari, cieli; prima soprattutto con spostamenti forzati, principalmente dal clima e da altre impellenze di sopravvivenza, poi sempre più in seguito a una scelta pianificata. Per quanto irregolare e multiforme, si può ricostruire un’evoluzione delle migrazioni umane, fin quando l’umanità in più parti del mondo riuscì ad addomesticare piante e animali per accrescere e accumulare la produzione di cibo. La popolazione crebbe come mai prima, le società si stratificarono, nuovi flussi migratori di coloni ripartirono in cerca di altre terre da coltivare, rimescolando di continuo le carte della geografia umana sul pianeta.
Il fenomeno migratorio umano è un fenomeno sociale totale, non si misura solo o prevalentemente con lo spazio, la quantità e la durata: contano i percorsi, le qualità, le modalità, le velocità, le capacità, la trama delle relazioni biologiche e culturali con gli ecosistemi e gli altri gruppi umani, la resilienza e l’entropia, i luoghi e i momenti del migrare, da quando viene preso in considerazione un movimento, anche all’indietro. Dalla fine dell’ultima glaciazione, con la svolta della coltivazione e dell’allevamento, originatasi in luoghi e tempi differenti, Homo sapiens è stato in grado di alterare per i propri fini espansivi le nicchie ecologiche che incontrava, non limitandosi ad adattarsi agli ambienti, ma trasformandoli. Non ha più atteso i tempi lentissimi dell’evoluzione biologica e si è affidato all’evoluzione culturale e tecnologica riguardo anche il migrare. È cresciuta la capacità migratoria, nel grado di scelta di come, quando, dove e perché. Sarebbe tuttavia un’illusione pensare di essersi emancipati dai vincoli ecologici: ancora oggi le costrizioni che portano a migrare sono sia politiche sia ambientali. Una sottile ma tenace filigrana storica si dipana nei milioni di anni, svelandoci i vincoli profondi del fenomeno migratorio umano. Ha scarso senso interpretare i flussi migratori contemporanei come se fossero un evento eccezionale, una contingenza del momento, un’emergenza. Il tempo profondo dell’evoluzione insegna il contrario: il fenomeno migratorio è strutturale e costitutivo della nostra identità di specie. Con uno sguardo largo, nel tempo e nello spazio, possiamo leggere in modo diverso anche l’attualità.
In che modo è possibile garantire ai popoli il diritto di restare nei propri Paesi che spesso sono soggetti a disastri ambientali e alla deprivazione della terra? E, quindi, in che misura il capitalismo e la globalizzazione contribuiscono alla sparizione delle tradizioni e mettono in crisi la sopravvivenza degli indigeni?
Con la nascita dei confini tra Stati nazionali, con le migrazioni di massa intercontinentali via mare, con l’imperialismo e poi la globalizzazione del sistema economico capitalistico, le migrazioni sono diventate un fenomeno estremamente più complesso. Si migra ovunque per sfuggire a nuove forme di violenza di altri umani, si migra anche per sfuggire agli effetti nefasti di un’economia predatoria che altera il clima globale e depaupera gli ecosistemi. Si migra a causa di ecosistemi locali e globale resi instabili da cambiamenti climatici prodotti dalle attività umane negli ultimi decenni. Si migra con maggiori gradi di libertà. Chi può permetterselo considera coessenziale ormai alla propria vita una piena libertà di migrare, un proprio diritto. Spesso sentiamo prevalere egoismi nazionali e paure alimentate ad arte. Senza cogliere il quadro d’insieme, sociale e geografico. Perdiamo di vista chi continua a non migrare e soffre sempre di più nelle sue terre non avendo il diritto di restare, chi continua a migrare all’interno del proprio paese fra grandi disuguaglianze, chi è costretto a migrare volente o nolente dalle troppe emissioni occidentali di gas serra. Perdiamo di vista il nesso fra diritti degli umani e diritti del vivente non umano.
Erano espliciti fin dal principio alcuni nessi fra diritti umani e ambiente nel sistema ONU, già dalla Dichiarazione di Stoccolma sullo sviluppo umano (1972), poi nel famoso rapporto sullo “sviluppo sostenibile” (1986), nei testi approvati a Rio (1992) e in gran parte delle successive relative produzioni di principi e obiettivi. È più recente ma ormai acquisita la constatazione di un nesso fra cambiamenti climatici e diritti umani, le implicazioni e gli impatti dei primi sull’effettività dei secondi. Sono stati presi in esame gran parte dei diritti più o meno esplicitamente citati dai due Patti del 1966: esistenza e proprietà dalla parte politica e civile, cibo abitazione salute acqua lavoro dalla parte economico, sociale e culturale. Poco o niente si è parlato finora delle libertà e dei diritti connessi alle migrazioni forzate. Certo è compito istituzionale dell’ONU prevenire i conflitti e assistere i rifugiati; dovrebbe esserlo anche prevenire e assistere tutti i migranti forzati.
Quali potrebbero essere le buone pratiche, in termini di accoglienza, che dovrebbero essere messe in atto dall’Unione europea?
È interessante riflettere su costrizione e libertà di migrare. Si tratta sempre di gradi relativi di costrizione e di libertà, non sono mai assolute. Con Telmo Pievani abbiamo scritto un libro recente (“Libertà di migrare”, Einaudi, 2016) proprio per tematizzare l’evoluzione e la relatività delle libertà e delle capacità umane di movimento, insistendo sulla nozione di un “diritto di restare”.
Molti di coloro che hanno subito il terremoto qualche settimana fa, per esempio, non vogliono migrare: preferiscono continuare a vivere lì, non vogliono trasferirsi, perché esiste un legame profondissimo nella maggior parte degli esseri umani con il luogo nei quali si è maturati e cresciuti. Si vuole avere il diritto di restare lì. Vi è chi preferisce rischiare di morire, piuttosto di abbandonare il luogo a cui è legato: non c’è mai costrizione assoluta. Inoltre la fuga non è mai garantita nei risultati.
Dobbiamo contrastare tutte ragioni alla base delle migrazioni forzate, indotte e provocate da altri e nel frattempo far crescere il livello di libertà: a un maggiore margine di libertà non corrisponde il fatto che partano tutte le donne e gli uomini potenzialmente “liberi”. L’indagine storica mostra, al contrario, che la maggior parte dei componenti dei gruppi umani preferisce “restare” nel territorio dove sono nati, cresciuti, evoluti.
Per questo non funziona la categoria di “migrante economico” opposta a quello “di rifugiato politico”. La definizione “migrante economico” è stata adottata dai media e dalla politica, ma è un’esagerazione considerare tali tutti coloro che arrivano e per i quali non sussistono le condizioni per ottenere asilo. Chi nel suo paese non trova più acqua spesso muore. Può tentare di fuggire, anche in questo caso rischiando la morte – perché c’è il cimitero sahariano, prima di quello mediterraneo. Chi arriva non riesce a ottenere l’asilo o altra forma di protezione internazionale molto spesso solo perché non è fuggito dalla persecuzione o dalla guerra. Ma è lo stesso un migrante “forzato”.
Dovremmo cambiare tutto ciò, a partire dal linguaggio che usiamo. Il principio generale dovrebbe essere l’accoglienza non la dichiarazione di clandestinità, la segregazione, il rigetto. Assistere tutti umanitariamente, verificare chi vuole proseguire, concedere asilo ai rifugiati politici, studiare uno status specifico per i rifugiati climatici, controllare chi rispetta le nostre normative e potrebbe essere utile al nostro fabbisogno di lavoro. Finora l’Europa non è stata all’altezza di questa sfida, né in passato né recentemente (come mostra l’accordo con la Turchia).
Quali sono gli scenari futuri riguardo allo spostamento dei popoli e al dialogo interculturale?
Il fenomeno migratorio è un processo così radicato nella storia e nella geografia dell’evoluzione umana che può essere governato soltanto con lungimiranza e il senso alto di una politica intesa come lo stare insieme in vista di una attività comune e di un futuro aperto. Solo una politica così eticamente e razionalmente motivata potrà distinguere correttamente le differenti tipologie di migranti, contrastare il più possibile le migrazioni forzate, riconoscere finalmente appieno l’esistenza dei rifugiati climatici, favorire la libertà di migrare insieme al diritto di restare nella terra in cui si è nati.
Ed è necessario lanciare un grande progetto interdisciplinare e internazionale: la costruzione di un atlante geografico e storico globale delle migrazioni umane. mettere in rete tutte le tracce e i lineamenti, verificare ricerche e studi a livello internazionale, in modo di configurare mappe di un vero atlante storico globale delle migrazioni umane, che inquadrino in una prospettiva evolutiva e di storia profonda anche le cronache sui flussi migratori in corso.
Il riferimento a “mappe geografiche” (atlante) allude ovviamente a una dimensione molto più che cartografica; gli stessi confini di una “mappa” (planetari, ecosistemici, locali) sono meritevoli di criticità e storicizzazione. Servono competenze disciplinari diverse e intrecciate: paleoscienziati di tutto, antropologi, storici, geografi, filosofi della scienza, demografi, genetisti, linguisti, biologi, etologi, sociologi, statistici, giuristi, studiosi di cibi e alimentazione, di arti e giochi, giornalisti scientifici, chi più ne ha ne metta. Una griglia critica generale consente poi di articolare singoli “moduli” della ricerca, ricerche specifiche sul piano storico o geografico o culturale (a esempio le migrazioni mediterranee o intellettuali o delle malattie o dei cervelli). Non c’è necessariamente un prima e un dopo fra mappa globale in una arco (anche molto lungo) di tempo e studio focalizzato su un “modulo”, purché si indaghino aspetti specifici e circoscritti (per temi, problemi, discipline, oltre che su base geografica e territoriale) nell’ambito di un disegno complessivo di carattere ampio e articolato. Servirebbe mettere in rete non solo studiosi ma anche alcune istituzioni scientifiche: dipartimenti, musei, enti di ricerca, organizzazioni con struttura o vocazione internazionale, associazioni di migranti o sui diritti umani.