Migranti e diritti: tra mutamento sociale e buone pratiche
Siamo contenti di annunciare che è on line la prima pubblicazione di Tempi Moderni dal titolo “Migranti e Diritti” curata da Marco Omizzolo, con contributi di studiosi, ricercatori e giornalisti qualificati. Il lavoro parte dall’assunzione di un ruolo nuovo dell’Italia dentro la geografia globale delle migrazioni che comporta l’elaborazione, indispensabile, non solo di nuove politiche ma anche di analisi in grado di rappresentare nuovi bisogni, necessità e problematiche legate ai flussi migratori in entrata e di cogliere gli aspetti originali di progetti organizzati territorialmente grazie ad una positiva alleanza tra istituzioni, terzo settore qualificato e migranti stessi perché nei territori si possono cogliere importanti iniziative, a volte anche sperimentali, aventi ad oggetto progetti di emancipazione del migrante.
Associazione per i Diritti umani ha rivolto alcune domande a Marco Omizzolo, con noi sempre gentile e disponibile.
Il primo argomento trattato nella pubblicazione riguarda la cittadinanza per i figli degli immigrati: a che punto è l’iter della legge per la cittadinanza dei ragazzi di nuova generazione e perchè è diventata un problema politico?
La nuova legge sulla cittadinanza è un punto nodale per cambiare le politiche migratorie di questo paese. Una legge ancorata al principio vetusto dello jus sanguinis è senza alcun dubbio un freno per l’Italia e motivo di frustrazione per milioni di persone che invece ambiscono a diventare cittadini dopo aver trascorso la maggior parte della loro vita dentro i nostri confini nazionali. Conosco persone che sono arrivate in Italia a ventanni e che a distanza di trentanni ancora non sono cittadini italiani nonostante il loro desiderio e condotta irreprensibile. Il governo manca di coraggio, forse per la sua maggioranza così composita e variegata. Essa risente di culture politiche che ancora concepiscono il migrante come un possibile pericolo, forse anche un invasore, la cui presenza deve essere limitata e rigidamente controllata. Vanno in questa direzione i pacchetti sicurezza, il migration compact e i vari Processi di Rabat, Kharotum e vari sottoscritti da Governo italiano. Fino a quando non ci sarà una nuova legge sulla cittadiananza inclusiva e più civile dell’attuale saremo responsabili dell’emarginazione di milioni di persone. E credo che questo scatto di civiltà, purtroppo, non sarà possibile con questo governo e in questa legislatura. La direzione politica segna una rotta di altra natura, fondata sulla differenza, sulla distanza tra cittadini italiani e migranti e ancora su una discriminazione di fondo che vuole distinguere il Noi da Loro.
Di cosa si parla quando si legge “pratiche di sconfinamento”? E quali sono le mansioni degli operatori sociali che hanno a che fare con i migranti?
Le “pratiche di sconfinamento” sono una riflessione quasi metodologica proposta dal prof. Ferrari. Esse dovrebbero costituire un patrimonio comune a molti operatori sociali nel loro agire professionale quotidiano, soprattutto quando devono intervenire in contesti organizzativi più orientati a costruire procedure standardizzate e controllabili che a mostrarsi efficaci nel risolvere le questioni che vengono loro poste dai cittadini-utenti. Nello studiare le pratiche di sconfinamento, in particolare riferite agli operatori che lavorano con cittadini migranti, Ferrari individua uno spazio riflessivo che può consentire di riflettere sul senso del proprio lavoro e di valorizzare competenze ed esperienze già disponibili e spesso non utilizzate. Secondo me sono anche una sorta di antidoto alla burocratizzazione della professione dell’operatore sociale, il quale se perde la sua empatia sentimentale con la sua ricerca, trasforma la sua stessa azione in una fredda pratica di indagine. Sconfinare vuole dire andare oltre, guardare con curiosità, regolare l’azione di ricerca in modo eretico rispetto ai canoni formali della ricerca, da non rifiutare ma neanche da idolatrare, per cercare di cogliere il movimento del sociale e non il suo immobilismo. Agire in questo modo nelle azioni di ricerca sui migranti vuol dire fare esperienza completa e complessa della loro dimensione e comprendere dinamiche e processi che altrimenti ci sfuggirebbero. Essere eretici e sconfinare nell’azione della ricerca significa coniugare la libertà della ricerca con il suo statuto metodologico più qualificato. È un saggio che consiglio di leggere soprattutto agli studenti, a coloro che si approcciano per la prima volta o quasi alla ricerca-azione. Lo trovo un saggio di grande spessore. Per esempio è importante fare esperienza di vita coi migranti, magari attraverso ricerca partecipativa, più o meno moderata, per comprendere la dimensione complessa del quotidiano ed evitare semplificazioni eccessive.
Nel suo saggio riprende un tema a lei molto caro: quello dei braccianti agricoli stranieri. Come si possono contrastare le forme di lavoro che tanto sono simili a schiavitù?
Si deve trovare il coraggio, anche scientifico, di rimettere in discussione la combinazione, per me perversa, tra globalizzazione e capitalismo nella società contemporanea. Se non inseriamo le vecchie e nuove forme di schiavitù dentro questo quadro più ampio, finiamo col perdere aspetti essenziali della sua dinamica sino a proporre soluzioni solo parziali e potenzialmente inefficaci. La nuova legge sul caporalato, ad esempio, la 199/2016, è un passo in avanti ma non costituisce la soluzione del problema. La politica deve rimettere al centro la persona e i relativi diritti, a partire da quelli fondamentali entro i quali io inserisco quelli del lavoro, e poi nuove forme di welfare che consentono soprattutto ai più fragili di ottenere condizioni e possibilità di emancipazione reali. A questo aggiungo una politica estera radicalmente diversa rispetto all’attuale. Se così non avviene, lo sfruttamento lavorativo rischia di replicarsi di continuo e di trovare sempre nuove e più sofisticate pratiche di azione e d’organizzazione, comprese relazioni sempre più stringenti con il mercato globale e la grande distribuzione organizzata. Nel pontino con la coop In Migrazione abbiamo organizzato con finanziamento della Regione Lazio il progetto Bella Farnia divenuto best practice per il CNR e l’Eurispes. Da quel progetto sono nate le prime denunce contro datori di lavoro, sfruttatori e caporali, sino allo sciopero del 18 aprile scorso con più di duemila braccianti indiani sotto la Prefettura di Latina. Ma quel progetto non è stato rifinanziato. Si è concluso lasciando lavoratori e le loro famiglie a metà strada di un percorso che invece stava dando frutti straordinari. Quel progetto è stato un miracolo per loro ma una semplice concessione per le istituzioni. È mancata la volontà politica di continuare, o forse il coraggio di farlo. E questo è inaccettabile. La natura sistemica dello sfruttamento, della tratta internazionale, delle forme di investimento e condizionamento mafioso in questo settore e le varie truffe che tutti conoscono e che ogni mese si ripetono incessantemente ai danni dello Stato e dei lavoratori e delle lavoratrici, italiani e stranieri, sono una costante sulla quelle è urgente riflettere e noi ci abbiamo provato con la collettanea Migranti e diritti.
Il saggio di Diego Santoro, giurista e avvocato, pone al centro della riflessione il patrocinio a spese dello Stato per i migranti che si trovano in maggiore difficoltà economica: ci aiuta a capire di cosa si tratti e quali sarebbero i vantaggi se venisse riformato?
Il gratuito patrocinio è un istituto importante che vuole andare incontro a chi non ha possibilità di pagarsi un avvocato ma che si affida alla giustizia per ottenere il riconoscimento dei suoi diritti. Eppure questo istituto è stato svilito sino a determinare l’impoverimento dell’istituto e del ruolo e stimolo degli avvocati ad esso dedicati. Anche questa volontà, pienamente politica, rientra in una lettura più ampia, la quale riguarda una nuova forma di nazionalismo, una sorta di nazionalismo post post moderno, che arriva a comprende la legge Bossi-Fini, ancora in vigore, quella sulla cittadinanza, le politiche di accoglienza e di respingimento, la mortificazione del welfare e le politiche dis-attive del lavoro, sino alle avanzate proposte di riforma costituzionale e i vari accordi internazionali. Se spostiamo il nostro sguardo in avanti, ossia se guardiamo alle future generazioni, mi domando quali tutele, garanzie, investimenti di civiltà, gli lasceremo. Forse un mondo più povero, più sporco, più in guerra in cui vivranno condizioni di maggiore fragilità sociale e ricattabilità lavorativa. Questo vale per tutti tranne per i più protetti, che sono i più ricchi. Se nasci in una famiglia ricca non hai problemi di sorta. Se nasci povero e non riesci a migliorare la tua condizione economica e sociale rischi di essere e restare in condizioni di strutturale fragilità. Consiglio a tutti di leggere Furore di Steinbeck o alcuni straordinari film di Visconti e De Sica per ricordarci da dove veniamo e cosa rischiamo di tornare ad essere. Dobbiamo riprendere a ragionare sul futuro che vogliamo e non invece costantemente sul nostro presente immaginando contrapposizioni di civiltà. A vincere in questo modo sarà solo l’economia selettiva, ossia quella che seleziona sulla base del patrimonio economico disponibile e non secondo criteri di civiltà più ampi a partire da quelli del diritto universalistico. Non a caso sono esplosi nel mondo (Europa e Italia comprese) le violazioni dei diritti umani. Non basta annunciare il cambiamento, serve costruire un cambiamento partecipato e civile, ampio, inclusivo e democratico che partendo dal lavoro e prescindendo dalla nazionalità presupponga, come nel saggio di Sodano e Sorrentino, il ruolo attivo, anche economico, dei migranti, peraltro già in corso e ormai strutturato nell’economia ufficiale del paese, sino a costruire, come in quello di Noviello, le basi di una cittadinanza globale. Senza questa visione, temo, rischiamo di entrare in decenni di guerra, povertà e iper-competizione.
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