“LibriLiberi”. Il ministero della suprema felicità
Arundhati Roy torna alla letteratura dopo dieci anni da Il dio delle piccole cose. Dieci anni vissuti tra New York e Delhi, tra redazione di saggi e analisi della realtà in presa diretta. Con il suo ultimo romanzo, intitolato Il ministero della suprema felicità (edito da Guanda) mescola fiction con fatti veri perchè, come la stessa autrice ha dichiarato in una intervista, la forma romanzata è spesso più efficace di un articolo di un quotidiano.
Si tratta di un libro corposo, che fa compagnia, che istruisce e che fa riflettere. Come accade quando gli scrittori sono bravi professionisti, le storie individuali dei personaggi si intrecciano alla Storia con la S maisucola, con un’attenta e profonda introspezione psicologica dei primi e una particolareggiata descrizione della seconda.
Arundhati Roy ci permette di viaggiare attraverso un contimente vasto e contraddittorio come quello indiano, un continente di cui conosce le luci e le ombre: la stessa capitale è raccontata nei dettagli dei suoi vecchi e sporchi vicoli così come nei colori sfacciati e scintillanti della parte nuova. Poi le cime del Kashmir, i villaggi, le periferie e…un cimitero.
Il testo si regge su quattro figure femminili (o quasi)che appartengono a tre generazioni, dalla più anziana alla più giovane: Anjum, Tilo, Miss Jabardeen Seconda e Udaya.
Anjum nasce maschio e la narrazione inizia con la sua vicenda che fa intendere al lettore, fin da subito, come l’interesse di chi scrive sia rivolto a tutta l’umanità: ad Anjum e ai suoi compagni di vita (trans, tossici, miserabili), a uomini di potere, a donne e uomini guerriglieri, apersone comuni, ai bambini, di ogni età, religione e appartenenza.
Anjum (nata Aftab) vive sulla propria pelle la discriminazione, l’isolamento, la vergogna, ma anche le violenze contro i musulmani e le ripercussioni contro gli indù nella eterna lotta tra queste due fazioni. Decide, così, di ritirarsi in un cimitero, tra il silenzio e la pace delle anime dei morti, per ricaricare il corpo e lo spirito fiaccati da profonde ferite e umiliazioni. A poco a poco quel cimitero si trasforma in una pensione che accoglie tutti i reietti, coloro che non possono fare parte della società o che ne vogliono stare lontani: l’imam Ziauddin e Mr “Saddam” Gupta, da poco tornato dalla guerra in Iraq, altri travestiti (gli hiira, come si dice lì o eunuchi), i dissidenti o i loro parenti (uno di loro racconta: “Uno gruppetto di uomini entrò nel posto di polizia e trascinò fuori mio padre e i suoi tre amici. Si kisero a picchiarli, all’inizio usando solo i pugni e le scarpe. Ma poi qualcuno si procurò un piede di porco, un altro un cric. Non riuscivo a vedere granchè, ma dopo i primi colpi udii le grida…).
Una notta (QUELLA notte),durante una manifestazione contro la corruzione dei governanti, nella calca della folla, Anjum e i suoi trovano un neonato abbandonato in un cassonetto dei rifiuti su un marciapiede. Una femmina e, perdipiù, nera. Lasciarla lì? Portarla alla pensione che non a caso si chiama “Paradiso”? Vince la seconda ipotesi. Una nuova vita che ne squaderna tante altre.
Con il capitolo intitolato “Il padrone di casa”, inizia il corpus del libro, prevalentemente incentrato sulla guerra del Kashmir ed entra in scena Tilo (o Tilottama), figlia di un rappresentante del governo studentessa di architettura, che invece diventa comunista e ama Musa, un combattente per la causa di quel piccolo, ma importante pezzetto di terra. Seguiamo indizi, fotografie, messaggi in pure stile investigativo: la storia d’amore di Tilo e Musa, i loro incontri clandestini, le loro paure, la loro battaglie e i loro ideali. Le persone nemiche, come il famigerato Jalib Qadri, rappresentante di tutti i dittatori nel mondo e di tutti i carnefici che finirà morto suicida, negli USA dove viene accolta la richiesta di asilo politico, quella per sé e per la sua famiglia…Ma non vi sveliamo il motivo per cui toglierà la vita a se stesso e ai propri cari; oppure le persone opportuniste (che sono le peggiori) quelle, cioè, che stanno a metà tra la rivoluzione e il governo, come Naga, ex amico di Musa e Tilo (ma poi suo futuro marito) e giornalista rampante, capacissimo di cambiare parte per sete di notorietà, sguazzando tra militari, paramilitari, tra guerriglieri e alti funzionari.
Durante la descrizione dei fatti – che vanno dagli anni ’90 ai giorni nostri – Arundhati Roy arricchisce la lettura con commenti sulla situazione sociale, politica e culturale del proprio Paese (scrive, ad esempio: “ L’Unica cosa che impedisce al Kashmir di autodistruggersi come il Pakistan e l’Afghanistan è il sano, vecchio capitalismo piccolo-borghese. Con tutta la loro devozione, i kashmiri rimangono grandi affaristi. E in definitiva, non c’è uomo d’affari che in un modo o in un altro non abbia interessi legati allo status quo, o a ciò che noi chiamiamo il Processo di Pace, che tra l’altro offre opportunità di business completamente diverse da quelle della pace vera e propria”. E le considerazioni variano a seconda di chi le proununcia). Ricco di particolari, il romanzo è un piccolo compendio di Storia recente indiana ma anche di sentimenti universali: la nostalgia, la testardaggine, l’orgoglio, la tenerezza…: la madre di Tilo si chiamava Maryam. Apparteneva ad una famiglia aristocratica di cristiani siriani ormai decaduta, il suo rapporto con la figlia è sempre stato conflittuale anche se veniva considerata, per i suoi tempi, una donna controcorrente, una femminista. E così, partendo da un personaggio scopriamo le vicissitudini di tanti altri. Le difficoltà, soprattutto: c’è tanta morte, c’è tanta sofferenza, c’è tanta tortura. C’è tanta realtà. Ma c’è anche la speranza.
Come spesso accade, la Grazia e la Speranza (sì, vogliamo usare proprio questi termini) sono veicolati da due bimbe con lo stesso nome: Miss Jabardeen. Una, figlia di Musa e della prima moglie, deceduta in una delle numerose battaglie per l’indipendenza e la Seconda…che è la neonata lasciata dalla madre biologica, Udaya, sul marciapiede e cresciuta da Anjum, da Tilo e da tutti gli altri presso la Pensione Paradiso.
Una lunga lettera di Udaya scopre le carte della sua nascita: è figlia di uno stupro. Sei uomini si sono accaniti su sua madre. La madre è sopravvissuta, lei è sopravvissuta. La Vita può continuare, grazie anche a quel cordone di compassione, di affetto, di delicatezza che appartiene a tutti i reietti di Dheli (e non solo). La dedica di questo libro è proprio per gli “inconsolabili” che sono in grado, però, di regalare agli altri una “suprema felicità”.