La legge sull’aborto è del 1978: a distanza di quasi quarant’anni dobbiamo riparlarne perché mancano ancora i diritti civili
di Valentina Tatti Tonni
La legge che regola insieme la tutela sociale della maternità con l’interruzione volontaria di gravidanza è regolata nel 1978 dalla legge numero 194 che ha in sé ventidue articoli.
I consultori o le strutture socio-sanitarie come gli ospedali, sono tenute a consigliare e supportare tutte quelle donne che vi si rivolgono, ma spesso non è così. Ogni donna ha dei diritti e il medico dovrebbe garantirne la loro attuazione, indipendentemente dalla propria ragione etica e morale. La presente legge riconosce alla donna la possibilità di abortire nell’articolo 4. “Entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”.
La storia che portò alla 194
Quella legge non fu immediata, ma fu il risultato di grandi mobilitazioni di piazza che vedeva schierarsi da una parte il Partito Radicale con i democratici e le femministe a favore, dall’altra l’ala conservatrice e cattolica contraria. Non fu neanche un dibattito sereno, perché infatti la contesa durò vari anni prima che ci fosse un testo da presentare e firmare in Parlamento (e che i Radicali, infine, non promossero). Prima dell’approvazione della legge 194, l’aborto era disciplinato dal codice penale. Erano previste limitazioni alla libertà personale, quindi con ricorso a detenzione in carcere, sia per chi procurava un aborto su una donna consenziente sia che lei non lo fosse e sia che fosse lei stessa a procurarselo, come accaduto in molti casi nefasti. Inasprite le pene per procurata morte e diminuite se invece si cercava di salvare l’onore proprio o del congiunto. La legge allora abrogò questi articoli e ne destituì il reato.
Tre anni prima, nel 1975, i riflettori erano puntati tutti sul dibattito, soprattutto dopo l’arresto di tre esponenti chiave. L’allora segretario del Partito Radicale Gianfranco Spadaccia, la segretaria del Centro di Informazione sulla Sterilizzazione e sull’Aborto (CISA) Adele Faccio e la militante radicale Emma Bonino, per aver praticato l’aborto ed essersi, senza alcun latitare, autodenunciati alla polizia.
L’Italia in quel periodo stava affrontando oltreché gli anni di piombo con le vicende stragiste del terrorismo, anche mobilitazioni sociali importanti come lo era stata la legge sul divorzio, supportata da correnti sempre più vicine alla gente come il femminismo. Quel movimento di scoperta e conoscenza dell’essere donna, in lotta contro quel secondo sesso di cui aveva scritto Simone De Beauvoir, un’Altra minore e senza opportunità di fianco all’oramai stanco stereotipo dell’uomo vero. La rivoluzione culturale e sessuale dunque era in atto e la campagna abortista continuò, nonostante i dubbi sollevati dai più conservatori che tanto amaramente avevano già dovuto accettare e deliberare sul divorzio qualche anno prima.
Iniziativa molto importante resa possibile dalla CISA fu quella di contrastare anche l’aborto clandestino istituendo i primi consultori in Italia (a Firenze nel ’75 ne fu inserito uno all’interno del partito) e mettendo a disposizione di chi ne avesse necessità dei voli charter verso Paesi come Inghilterra e Olanda che lo praticavano, grazie alle convenzioni ottenute con prezzi contenuti e interventi medici più accurati. Nel febbraio dello stesso anno Marco Pannella insieme all’allora direttore della rivista L’Espresso Livio Zanetti presentarono alla Corte di Cassazione richiesta di referendum abrogativo di quegli articoli del codice penale che ritenevano l’aborto un reato, iniziando così la raccolta delle firme necessarie. Ne arrivarono settecentomila, forti anche di una sentenza della Corte Costituzionale di ritenere possibile la pratica dell’aborto “per motivi molto gravi”, aggirando così gli invalicabili limiti morali.
Difatti, una legge che non regola
La legge sull’aborto dovrebbe rientrare nel diritto alla salute della donna garantito dalla Carta Sociale Europea, riveduta rispetto a quella iniziale del 1965 ed entrata in vigore lo stesso anno in cui anche il nostro paese l’ha recepita nel suo ordinamento interno, ossia nel 1999. Linearità di obiettivi che evidentemente non ha suscitato la stessa accettazione nell’opinione pubblica quanto nel personale medico. Infatti, i dati al 2016 mostravano l’aumento dei cosiddetti obiettori di coscienza che rifiutavano, salvo casi indispensabili per cui non ci si poteva tirare indietro per salvare la vita umana, di praticare l’aborto per ragioni o credenze proprie. Lo Stato non potendo obbligare l’obiettore a praticarlo, dovrà rimediare procurando alla struttura nuovo personale disposto a farlo, tramutando la pratica in qualcosa di eccezionale, quasi estorto.
Gli obiettori di coscienza, per quanto vadano contro la legge fisica di uno Stato di diritto, ne sono immuni poiché obbediscono ad un’altra legge, talvolta spirituale, alla quale sottoscrivono l’anima. Nella credenza totale di stare tutelando prima la vita umana anziché lo Stato, si ritengono nel giusto, anche se negano il presupposto della scelta alla persona che sono convinti di tutelare. E’ infatti la presente legge numero 194 che li esonera senza colpa, facendone così proliferare in massa: in Italia in alcune regioni come Molise o Basilicata, è quasi impossibile, secondo i dati del 2016, praticare l’aborto. Oltre ai singoli obiettori esistono anche associazioni che promuovono la credenza in favore della vita umana, ritenendo che l’aborto significhi omicidio. Una di queste è la Pro Life, una Onlus che “opera in difesa dei bambini, della vita dal concepimento alla morte naturale, che sostiene la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna” come si legge nel loro sito. Accanto alla Pro Life, troviamo la cosiddetta Pro Choice, quella persona o associazione che al contrario è ed era dichiaratamente a favore dell’aborto.
Ultimi episodi di cronaca: Don Pieri, Emma Bonino e il Concilio Vaticano del ‘65
Negli anni sono nate moltissime associazioni contrarie, ma è la Pro Life che, in seguito all’aspro botta e risposta avvenuto nelle ultime settimane tra la radicale Emma Bonino e il prete bolognese don Pieri, ad aver affisso in molte zone di Roma manifesti raffiguranti una pinza vicino ad un feto all’interno dell’utero materno, immagine crude accompagnata da una frase ancora più esplicita “6 milioni di morti” causati, secondo i promotori della campagna, proprio dalla legge sull’aborto.
Don Pieri, il parroco bolognese, scrisse una decina di giorni fa su Facebook una frase provocatoria, dimenticando per un attimo di non avere alcun potere di giudizio: “Ha più morti innocenti sulla coscienza Totò Riina o Emma Bonino?”, provocando appunto una serie di polemiche a catena che infine giunsero domenica 19 novembre sulle pagine del Resto del Carlino. Il parroco che tuttora insegna nella facoltà teologica dell’Università dell’Emilia-Romagna, sicuro delle sue idee, ha anche risposto ai commenti che gli sono arrivati, ammonendo che “moralmente non c’è differenza”. Nello scrivere quest’ultima frase, don Pieri rievoca il II Concilio Vaticano con la sua Gaudium et spes, ossia la quarta costituzione apostolica conciliare promulgata da Papa Paolo VI nel 1965, quindi ben prima che venisse proposta e accettata la legge sull’aborto.
L’obiettivo del Vaticano allora era quello di avvicinarsi alla cultura contemporanea, cercando di separare l’idea che se qualcosa non rientrava nella morale cristiana allora non poteva essere la volontà di Dio. E’ interessante leggere infatti quanto fosse avveduto il pensiero della Chiesa nei confronti delle nuove scoperte dell’uomo, l’intelligenza, la creatività, analizzava altresì in maniera molto lucida i problemi che affliggevano la Terra, non tralasciando il senso di libertà che ogni singolo individuo doveva poter avere. Di questo don Pieri non faceva cenno perché nell’articolo 27 del presente II Concilio, dopo aver parlato di bene comune, libertà e rispetto, leggeva l’unica cosa che gli interessava per la causa: l’aborto insieme al genocidio e all’eutanasia (che oggi sappiamo avere significati differenti dal crimine) è considerato parimenti come “tutto ciò che è contro la vita stessa”, azioni che se praticate ledono l’onore del Creatore. La contraddizione qui sembra celarsi dietro il rispetto per la libertà individuale e il rispetto per le scoperte scientifiche dell’essere umano, cui si faceva riferimento nel proemio. La scienza e il diritto infatti sono d’accordo nel ritenere che il feto non è un individuo, diventerà un bambino solo dopo aver respirato fuori dal grembo materno la prima volta.
Tuttavia il discorso tende ancora ad inasprirsi a distanza di quasi quarant’anni dalla sottoscrizione di quella legge, perché si confonde la genesi con i diritti civili, non ammettendo che ci possa essere confronto e rispetto reciproco, anziché negazione. Come ha detto Emma Bonino “la libertà prende forma con i diritti”, ma di quali diritti stiamo parlando se ci viene negata la libertà civile di scegliere con cognizione, in quale misura ci sono stati concessi dei diritti che poi possono essere ritirati perché ritenuti, qualora la regolazione della norma giuridica non risulti efficace, contrari alla volontà divina. Sembra quasi che obiettare contro il diritto alla scelta individuale cauteli la collettività, come se dopo tutto la vera obiezione non fosse di coscienza ma di libertà.