Il sistema minorile italiano tra securitarismo e squilibri territoriali
Vincenzo Scalia (per i dati completi www.antigone.it)
La sfera della giustizia minorile rappresenta un aspetto paradossale della giustizia italiana, che riproduce tutte le contraddizioni esistenti non solo a livello giudiziario, ma anche sul piano sociale. Da un lato, ci troviamo di fronte ad un sistema che adotta la risorsa penale come extrema ratio, privilegiando canali alternativi come la messa alla prova, il collocamento in comunità, l’affido omoculturale. Dall’altro lato, questi aspetti si trovano sottoposti a sollecitazioni continue, che provengono dal contesto politico e sociale dell’Italia contemporanea.
Innanzitutto, l’attenzione rivolta alla crescita del minore, deve fare i conti con i tagli costanti alla spesa pubblica, che pregiudicano la possibilità di svolgere interventi mirati in direzione dell’integrazione sociale, in quanto comportano una sensibile riduzione delle risorse destinate all’assunzione di nuovo personale, alla stipula di progetti che vedono coinvolti il terzo settore, alla creazione di strutture educative e ricreative, alla formazione del personale (www.centrostudinisida.it).
l’attenzione rivolta
alla crescita del minore, deve fare i conti
con i tagli costanti
alla spesa pubblica
Il taglio alla spesa si connota in tutta la sua drammaticità nella misura in cui acuisce le differenze non soltanto tra le aree più sviluppate e quelle più depresse del Paese, ma anche il divario tra quelle zone che denotano un rapporto più fecondo col territorio e quelle per le quali invece la rete è ancora tutta da costruire. Ne consegue una disomogeneità di interventi, che, per quanto non pregiudichi l’intero sistema giudiziario minorile italiano, lo rende in una certa misura zoppo.
In secondo luogo, la composizione della popolazione detenuta, rispecchia sia la stratificazione sociale italiana, sia il panico morale (vale a dire l’allarme che gruppi e subculture specifiche suscitano presso l’opinione pubblica) che la attraversa con migranti e meridionali e rom in prima fila tra gli “utenti” degli Istituti Penali Minorili (IPM). I fatti di cronaca che vedono coinvolti i minori, non ultimo quello recente dell’omicidio di un genitore commesso a Milano nel gennaio 2017, amplificano le richieste securitarie, che spesso sfociano in proposte di legge, come il disegno 2593/16, che mirano a sopperire il Tribunale dei Minori e a trasformarlo in un’appendice della giustizia ordinaria. Questo capitolo discuterà queste contraddizioni. Inizieremo con un’analisi di alcuni significativi dati relativi al circuito penale minorile. Passeremo quindi a discutere della questione dei giovani adulti, per analizzare criticamente il progetto di riforma.
Alcuni dati
Al 30 giugno del 2016, gli ingressi all’interno dei 25 Centri di Prima Accoglienza (CPA; luoghi dove i minori arrestati vengono trattenuti fino a 96 ore in attesa della convalida del fermo), erano 757, di cui 648, pari all’85,6%, riguardavano utenti di sesso maschile, 109 (pari al 14,4%), l’utenza femminile (giustizia.minori.it). Disaggregando il dato per nazionalità, vediamo gli Italiani rappresentare il 50,3% (381), contro il 49,7% (376) degli stranieri.
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Il dato evidenzia una sovrarappresentazione dei minori stranieri nel sistema penale minorile italiano, le cui cause potrebbero essere ricercate nella maggiore attenzione delle forze dell’ordine e nella maggiore attitudine denunciatoria da parte della popolazione italiana nei confronti dei non italiani. A sostegno di questa interpretazione, troviamo i dati relativi alla nazionalità delle ragazze condotte in CPA. Le italiane rappresentano soltanto il 21.1% (23) delle minori transitate in CPA. Ben 84 minorenni di sesso femminile, pari al 77,1% del totale, provengono dai Paesi europei, di cui 36 (33%) dagli Stati UE e 48 (44.1%) da altri Paesi. Soltanto una ragazza (0,9%), proviene dai paesi africani, a fronte di 146 minori di sesso maschile.
La schiacciante prevalenza europea, pertanto, può essere letta come una maggiore attenzione che le forze dell’ordine, al pari dell’opinione pubblica italiana, prestano alla popolazione rom e sinti, che nella maggior parte dei casi provengono dai paesi dell’Est Europeo, in particolare dall’ex-Jugoslavia. In questo senso, l’utilizzo della risorsa penale si connota sempre più come uno strumento da applicare a fasce specifiche di popolazione, in particolare quelle più marginali socialmente e culturalmente.
Inoltre, una disamina a livello territoriale dei transiti all’interno dei CPA italiani nello stesso periodo di tempo, configura la tendenza alla sovrarappresentazione dei minori stranieri, in particolare quelle di sesso femminile, in modo più netto. Su 109 ragazze transitate nei CPA, 62, pari al 56,7%, riguardano Roma, contro 4 casi di Napoli e, addirittura, nessun caso a Palermo. Il problema della sicurezza, che in questi ultimi anni ha orientato il dibattito politico nella Capitale e nelle principali aree metropolitane del Centro-Nord, a partire da fatti che hanno visto il coinvolgimento della popolazione straniera o nomade sia come vittime che come colpevoli, si riflette in questo dato, da dove affiora la stigmatizzazione di queste fasce di popolazione. In particolare, le ragazze transitate nel CPA romano ammontano a 62, pari al 28,3% del totale, una cifra quasi doppia rispetto a quella registrata nella media nazionale.
Se disaggreghiamo i dati relativi ai transiti per nazionalità, questa tendenza a Roma viene confermata. Dei 219 transiti, 151 casi, pari al 68,9%, riguardano stranieri, a fronte del 31,1% (68) di Italiani. Una tendenza analoga la riscontriamo anche a Milano, col 51,15 (46) di transiti stranieri, mentre spostandoci a sud la prevalenza italiana è sempre più schiacciante: a Palermo, gli italiani transitati rappresentano il 72,3% (41 su 56); a Napoli ci troviamo di fronte a 80 casi su 90, pari all’88,9%. A Bari e a Catania, invece, per quanto prevalgano gli italiani, la presenza degli stranieri è relativamente elevata: nel capoluogo pugliese, gli stranieri costituiscono il 45,3% dei flussi (11 su 24), mentre nella città etnea la percentuale sale al 48,7%, (31 su 64).
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Nelle aree metropolitane del sud, bisogna fare una distinzione – già per altro affrontata in altra sede (Scalia, Mannoia, 2008) – che riguarda il rapporto tra criminalità minorile e criminalità organizzata. Se a Napoli e a Palermo mafia e camorra dispongono di una organizzazione più capillare, che filtra il reclutamento e regolamenta i piccoli reati, lo stesso non può dirsi per il caso di Catania, dove Cosa Nostra ha sempre integrato la criminalità di strada, e di Bari, in una regione dove le organizzazioni criminali si sono frammentate dopo il tentativo unificatorio della Sacra Corona Unita (Massari, 1995). Di conseguenza, anche i minori stranieri si trovano coinvolti nelle attività della criminalità locale, mentre a Palermo e a Napoli questo non avviene, anche per la struttura sociale polarizzata di queste città, che fornisce ancora oggi alla criminalità un cospicuo bacino di reclutamento tra i gruppi sociali più svantaggiati, a detrimento degli stranieri. Ci troviamo dunque in presenza di un processo di doppia marginalizzazione.
462le presenze complessive, 419 maschi e 43 femmine
Spostandoci dai CPA ai 18 IPM (Istituti Penali Minorili distribuiti per tutto il territorio nazionale), relativamente alle presenze registrate al 30 giugno del 2016, gli andamenti seguono una traiettoria similare. In generale, la presenza complessiva ormai si attesta attorno alle cinque centinaia, con 462 presenze complessive, di cui 419 minori di sesso maschile, pari al 90,7%, a fronte di 43 detenute minorenni, pari al 9,3%. I minori italiani rappresentano il il 57,8% del totale (267 su 462 complessivi).
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Anche in questo caso, se disaggreghiamo le presenze in base al sesso rispetto alla nazionalità, troviamo un andamento ondulatorio della detenzione femminile. Le minorenni italiane detenute, infatti, costituiscono soltanto il 4,3% dei minori italiani ristretti negli IMP, ma il 36,7%(18) dei detenuti provenienti da Paesi dell’UE e il 26,9% (14) dei detenuti minori originari da altri Paesi europei, laddove riscontriamo un’assenza totale di minorenni ristrette tra Asiatici, Africani Americani e Apolidi.
Nel caso dei minori provenienti dall’Africa, lo squilibrio si fa ancora più significativo, perchè all’interno degli IPM i minori africani rappresentano la seconda categoria rappresentata a livello geografico (17,5%), molto dopo gli Italiani (57,8%), e abbastanza prima dei minori provenienti dai Paesi UE (10,6%) e di quelli provenienti dal resto d’Europa (11,2%).
i giovani africani
e le ragazze nomadi continuano a costituire una fascia estremamente marginale della società
Se il dato generale ci presenta un sistema minorile in grado di reggere a sufficienza l’urto dell’ondata securitaria, lo stesso non si può dire di fronte ad una scomposizione dei dati: i giovani africani (spesso minori non accompagnati) e le ragazze nomadi continuano a costituire una fascia estremamente marginale della società, portatori di bisogni di integrazione sociale ai quali si risponde prevalentemente attraverso l’uso della risorsa penale (www.centrostudinisida.it). Se è vero, nel caso delle ragazze rom e sinti, che in parte la loro sovrarappresentazione nel sistema penale è dovuta in parte anche alla diffidenza da parte delle loro famiglie verso i servizi sociali, è altresì vero che questa fascia della popolazione sconta un pregiudizio endemico da parte della popolazione italiana (Mannoia, 2008), che preclude ogni tentativo ispirato da logiche inclusive.
Relativamente alla popolazione femminile, la forbice si allarga se gettiamo uno sguardo ai collocamenti all’interno delle comunità, pubbliche e private. Al pari del rapporto tra italiani e stranieri. I minori locali rappresentano il 64,6% della popolazione collocata in comunità al 30 giugno 2016, un dato più elevato rispetto a quello relativo alle presenze in IPM. Dividendo il dato per sesso, la presenza femminile italiana risulta leggermente più elevata rispetto agli istituti di pena, passando al 6,3%. Al contrario, tra i minori stranieri, scendono al 6,5%. Questi dati fanno riflettere rispetto alle strategie di intervento scelte dagli operatori del sistema giudiziario minorile. Innanzitutto, perché le misure alternative sembrano avvantaggiare ancora una volta i minori locali, che probabilmente si avvantaggiano della conoscenza della lingua e del possesso di una minima rete di supporto. In secondo luogo, perchè tale scelta penalizza ancora una volta le minori straniere, che usufruiscono in modo soltanto marginale dei benefici delle alternative. In ogni caso, la maggiore presenza degli Italiani all’interno di IPM e Comunità, dato relativo agli ultimi anni, è il sintomo di una tendenza ad affrontare problemi sociali che avrebbero bisogno di altre risposte attraverso il penale. Una scelta in seguito alla quale sta prendendo piede l’allarme per i giovani adulti dentro gli IPM e sta prendendo piede l’idea di abolire i tribunali minorili, di cui discutiamo brevemente nell’ultimo paragrafo.
Altri sviluppi. Tra accademia del crimine
e responsabilizzazione
I giovani adulti, vale a dire la fascia compresa fino a 25 anni di età che, in seguito alla riforma del 2014, varata per adempiere alle raccomandazioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in seguito alla sentenza Torreggiani, possono rimanere all’interno degli IPM a scontare la pena, rappresentano circa un sesto dei detenuti totali all’interno delle strutture detentive minorili (www.ilmattino.it). Una recente rivolta scoppiata all’interno dell’IPM di Airola, combinata con alcuni fatti di cronaca nera che hanno avuto come protagonisti alcuni minori, ha suscitato un certo scalpore presso settori dell’opinione pubblica e alcuni operatori di polizia penitenziaria (www.sappe.it), arrivando a chiedere il collocamento dei giovani adulti nelle prigioni ordinarie, secondo una logica eccessivamente lineare che inquadra questi ultimi non soltanto come i presunti capi delle rivolte e dell’insubordinazione, ma anche come dispensatori di addestramento alla professione criminale nei confronti dei minorenni. Questi schemi interpretativi, per quanto ispirati dalla preoccupazione per i fatti avvenuti, rischiano di semplificare eccessivamente la realtà. Innanzitutto, perchè trasferendo i giovani adulti negli istituti penitenziari ordinari si rischierebbe di privarli di quegli interventi a loro vantaggio, trasformando, stavolta sì, le prigioni in una vera e propria accademia del crimine, in quanto finirebbero nel circuito dei condannati a pene definitive più grandi di loro. In secondo luogo, perchè gli IPM scontano non soltanto i tagli alla spesa pubblica che permettono di realizzare interventi di reinserimento sociale a più ampio raggio, ma anche gli squilibri territoriali, che fanno sì che in certe aree del Paese certi progetti educativi o professionali in favore dei minori non riescano ad essere portati avanti in seguito alla scarsa ricettività da parte del territorio. A questi aspetti, e non all’endemica inclinazione verso la delinquenza dei giovani adulti, va imputato il mal funzionamento dell’estensione dell’età di permanenza presso gli IPM.
L’allarme sociale relativo alla devianza minorile ha altresì finito per ispirare un altro tentativo di abolizione del sistema penale minorile, dopo quello compiuto nel 2004 dall’allora Ministro della Giustizia, Roberto Castelli. La tendenza securitaria dell’ultimo ventennio, di cui si è avuta una recrudescenza in seguito alle recenti crisi politiche e sociali, guarda con sempre più allarme i minori, in particolare quelli stranieri, e, come abbiamo visto, alcune categorie in particolari, come le minori rom e sinti. È in conseguenza di questo securitarismo di ritorno che non si riesce a proporre misure abolizioniste anche per il sistema penale minorile.
Questa tendenza si intreccia con la necessità di apportare i tagli alla spesa pubblica, che giustificherebbero una razionalizzazione del sistema penale italiano attraverso un accorpamento della giustizia minorile all’interno di quella ordinaria, giustificata con la necessità di trattare i minori come persone con pari diritti. In realtà, in questo contesto, il rischio è quello di smantellare il sistema di garanzie esistenti per i minori, di cancellare le professionalità specializzate che hanno presieduto in questi anni al funzionamento di un sistema che all’estero, dagli osservatori specializzati viene visto come un esempio, di ampliare ulteriormente il bacino dell’utenza penale inserendovi i minori, con il conseguente allargamento della “discarica sociale” che già alligna all’interno degli istituti detentivi per adulti. In questo contesto, si rischia di vanificare anche l’importante riforma operata in seguito all’entrata in vigore della legge 84/2015, che ha creato il nuovo Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità, sottraendo così prerogative al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (DAP, che presiede alle questioni relative alla sfera penale adulta), nel tentativo di conferire ulteriore autonomia alla giustizia minorile. Probabilmente, gli interventi da realizzare sono altri, e riguardano l’inserimento sociale e delle fasce disagiate e una maggiore tutela dei diritti dei minori.
Bibliografia
MANNOIA M. (2009), Zingari. Che strano popolo!,
Edizioni XL, Roma
SCALIA V., MANNOIA M. (2008), I Minori sono Cosa Nostra? Sociologia del Diritto, (45)3:2008, pp.112-137